Diciannove brand del lusso sono oggi sotto inchiesta a Milano. Dopo i casi Dior e Armani dell’estate scorsa, la Procura ha allargato il cerchio: sequestri, interdittive antimafia, stabilimenti commissariati.
La domanda, a questo punto, non è più “se”, ma “quanto”: quanto costa davvero una borsa da tremila euro? Non il prezzo in boutique. Il costo umano. Quello pagato da chi la produce.
Per capirlo basta entrare nei capannoni della Brianza, dove la filiera del “Made in Italy” si frammenta in sette livelli di subappalto.
All’ultimo gradino ci sono loro: bangladesi, nepalesi, pakistani, cinesi.
Dodici ore di lavoro, pochi euro l’ora, a volte dormono accanto alle macchine da cucire perché tornare a casa sarebbe un lusso. È la globalizzazione compressa dentro l’Italia, un Bangladesh nascosto sotto il tappeto del prestigio europeo.
Le certificazioni false e il paravento ESG
Ma il dettaglio più inquietante è un altro: le società di certificazione che avrebbero dovuto garantire l’etica delle filiere erano parte del sistema.
Bollini verdi distribuiti con leggerezza, audit pilotati, documenti falsi che trasformavano officine insalubri in laboratori “sostenibili”.
La retorica ESG (Environmental, Social e Governance) era un paravento: una liturgia recitata per rassicurare consumatori e mercati mentre, nei capannoni senza uscite di sicurezza, si cucivano borse destinate alle passerelle di Parigi.
La crisi del lusso nei mercati asiatici
In Cina ed India non ci credono più.
Ecco perché il mercato del lusso ha iniziato a scricchiolare.
Per dieci anni è stata la locomotiva del settore: ora ha invertito la rotta.
I consumatori cinesi, molto più informati e disincantati di quanto i brand europei avessero previsto, hanno capito che dietro una borsa da tremila euro – quasi venticinquemila yuan – c’è una filiera identica a quella del Bangladesh.
Sui social cinesi, da Weibo a Xiaohongshu, la conversazione è cambiata: non si parla più di “lusso accessibile” ma di “lusso coloniale.”
Lo stesso accade in India, la nuova frontiera del lusso: chi compra vuole sapere chi ha cucito quella borsa, dove e a quali condizioni.
Il risultato si vede nei numeri: mentre i listini borsistici europei crescono, il comparto del lusso nel 2025 è arretrato di circa il 10% rispetto ai benchmark.
Non è una fluttuazione: è un segnale. Il mercato non crede più al mito.
Lo sfruttamento come modello produttivo
Lo sfruttamento, in Italia, non è un incidente: è un modello.
Da decenni si usa manodopera straniera ricattabile per comprimere i salari.
Lavoratori senza tutele accettano compensi inferiori.
La loro presenza impedisce agli italiani di chiedere aumenti: chi ci prova si sente rispondere “fuori c’è la fila.”
A fine anno arriva un piccolo premio di produzione venduto come gesto di generosità aziendale.
Intanto i salari reali sono scesi.
Nel frattempo, gli immigrati finiscono nei reparti più pericolosi: cromature, galvaniche, trattamenti con acidi e cianuri.
Quasi solo indiani e pakistani.
Gli italiani nei reparti puliti, gli stranieri dove si respira veleno.
Una forma moderna di segregazione industriale di cui nessuno parla.
Le patologie non finiscono in alcun report: tumori ai polmoni, insufficienze renali, dermatiti chimiche, infarti da sfinimento.
Sono le malattie degli invisibili, persone senza contratto che spariscono dalle statistiche appena perdono il lavoro.
Le loro morti non interrompono nessuna sfilata, non scalfiscono l’aura dei marchi.
I manager e il paradosso etico del lusso
Mentre tutto questo accade, i compensi dei manager volano: sessanta milioni per un amministratore delegato, cinquanta per un altro.
È uno squilibrio strutturale: la base si comprime, il vertice prospera.
L’etica scende, i bonus salgono.
Nel frattempo, in Italia, si verifica un paradosso: gli unici veri difensori degli operai sono le Procure.
Non più i sindacati, indeboliti.
Non la politica, distratta.
Sono i magistrati, attraverso sequestri e commissariamenti, a proteggere chi non ha voce.
Usano il Codice Penale come scudo sociale.
Quando la difesa del lavoro diventa difesa penale, significa che il patto sociale è già in frantumi.
Un’eredità personale e una denuncia civile
Non parlo da antipatriota.
Mia madre era una sarta.
Negli anni Settanta e Ottanta cuciva per ore interminabili, spesso la notte, a cottimo, con il lavoro portato a casa perché la fabbrica non bastava.
La chiamavano “artigianato”, ma era la stessa dinamica di oggi.
La differenza è che allora le sfruttate erano italiane.
Oggi sono straniere.
Il sistema non è cambiato: ha solo cambiato chi sacrifica.
Il futuro del lusso e la necessità di regole
Per questo credo sia giusto denunciare chi sfrutta.
Ma è altrettanto necessario valorizzare chi lavora onestamente: le aziende che pagano dignità, rispettano la sicurezza, tracciano davvero la filiera.
Non tutto è marcio. Ci sono modelli virtuosi che meritano di essere raccontati.
Quello che sta crollando non è solo un settore economico. È una narrazione.
Per decenni ci hanno detto che il lusso europeo era il tempio dell’eccellenza.
Oggi questa storia non regge più.
Non è una crisi del gusto: è la verità che finalmente emerge.
Il mercato non si autoregolera, lo ha dimostrato.
Se il lusso vuole salvarsi, serviranno leggi più severe sulla tracciabilità della filiera produttiva, come avviene in quella degli appalti, ma soprattutto inasprimento delle sanzioni penali ai vertici, audit indipendenti e vincolanti.
Il vero lusso, quello fatto di valori, non solo di prezzi, non può vivere su un suolo di sfruttamento.
*Direttore di Barometro e analista strategico