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Più armi, meno cure, L’Italia che investe nella difesa e dimentica la salute

 
Più armi, meno cure,  L’Italia che investe nella difesa e dimentica la salute
di Roberto Morassut*

Lo stato di salute del Sistema sanitario italiano è critico e non sembrano esservi né la consapevolezza né le misure adeguate di cura da parte delle istituzioni.
Il Fondo Sanitario Nazionale, nelle previsioni della prossima legge di bilancio, arriverà nel 2028 al 5,8% del PIL sfondando il muro simbolico del 6%.
Contestualmente, in base al testo dell’ultimo DEF, la spesa militare crescerà progressivamente fino al 5%.
Spenderemo tanto per armarci, quanto per curarci.

Manderemo a rischio le nuove generazioni riducendo le loro opportunità o spingendole a prendere le armi con la leva volontaria o addirittura con la coscrizione obbligatoria (che oggi tutti escludono ma che incombe sullo sfondo) e spingeremo le generazioni anziane, sempre più numerose, verso una sanità scadente, inefficiente, assente.

Che società stiamo costruendo o come la stiamo demolendo?

Negli ultimi cinque anni il mondo è cambiato tempestosamente.
Le pandemie e le guerre nei secoli hanno avuto sempre un collegamento sotterraneo tra di loro. Sono il frutto di un mondo instabile che cerca nuovi assetti, nuove gerarchie. Enormi masse di popolazioni si spostano alla ricerca di fonti naturali di vita, alla ricerca in primo luogo dell’acqua che nell’Africa sahariana e subsahariana sta evaporando.
Il bisogno di energia e di nuove fonti energetiche, nuovi modelli industriali, concentrazione di ricchezze enormi in poche mani in grado di decidere i destini del mondo, orientare e influire sulla decisione della politica e degli Stati.

L’Italia affronta la tempesta con antichi ritardi e nuove contraddizioni.
La questione sanitaria diventerà sempre più il cuore degli equilibri sociali, la cartina al tornasole di una effettiva qualità del welfare italiano.

Il governo ha deliberatamente scelto un modello che si sta affermando attraverso la condotta delle Regioni che, in mancanza di adeguate risorse, riducono le prestazioni, rallentano il già timido processo di decentramento dei presidi sul territorio, non implementano il personale medico e infermieristico, non adeguano stipendi e salari, investono meno sul potenziamento delle infrastrutture tecnologiche per la diagnostica ad immagini.

Il settore privato prende spazio sia attraverso una inevitabile espansione delle assicurazioni, sia attraverso una crescita delle convenzioni e degli accreditamenti che, tuttavia, non garantiscono la stessa universalità e sicurezza del settore integralmente pubblico.

criteri di riparto della spesa sanitaria, che attraverso i LEP dovrebbero far recuperare al Mezzogiorno un ritardo storico di trasferimenti, non hanno la necessaria efficacia redistributiva.

Per la sanità pubblica occorrono almeno altri 4 miliardi nel triennio 2025-2028, finalizzati alla riduzione delle liste di attesa, obiettivo possibile solo investendo su maggiore personale, macchinari e presidi territoriali.

Ma le risorse per la sanità non sono le sole indispensabili per invertire la rotta della pericolosa destrutturazione del welfare cui stiamo assistendo.
Occorrono investimenti nella scuola, nell’emergenza abitativa, nelle politiche industriali (a partire dalla nazionalizzazione e riconversione del complesso siderurgico di Taranto) e nelle politiche di rigenerazione urbanaper le periferie e le aree interne.

Il PNRR va concludendosi e in Europa si discute duramente se la priorità dei prossimi programmi strategici comunitari debba essere un “New Deal sociale” o un programma di riarmo.

Ogni Stato dovrà, in assenza di scelte comunitarie chiare, trovare in casa propria le risorse adeguate per far fronte alle grandi esigenze sociali che avanzano.

In Italia è arrivato il momento di aggredire con efficacia il nodo fiscale.


L’evasione record, calcolata in 100 miliardi all’anno, inclusa quella derivante dall’economia illegale e criminale, e lo squilibrio di contribuzione tra lavoro dipendente e società di capitale rappresentano le grandi barriere da sfondare.

Si parla dell’introduzione di una patrimoniale e la parola fa paura perché evoca una indiscriminata tassazione dei patrimoni.
Ma sarebbe giusto parlare di un “contributo di solidarietà” da parte delle grandi rendite di capitale e patrimoniale oltre i 5/7 milioni di patrimonio netto, che con un contributo anche inferiore all’1% possono dare all’erario un beneficio di miliardi ogni anno.

È un delitto parlare di questo? Non credo.

Nello stesso tempo andrebbe affrontato anche il nodo del numero eccessivo delle Regioni, che alimentano uno spreco di spesa pubblica incontrollabile, soprattutto nel settore sanitario.

Ridurre le Regioni sarebbe una prospettiva di lungo periodo necessaria, ma in un orizzonte breve si potrebbero creare coordinamenti pluriregionali per creare 7-8 distretti tra gli 8 e 10 milioni di abitanti, riducendo sprechi, centrali di appalto, incarichi e consulenze.

Per il welfare e soprattutto per la sanità servono cure drastiche.
È finito il tempo dei palliativi, dei debiti, dei galleggiamenti.

 

 

*Deputato alla Camera per il Partito Democratico