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Il suicidio dello Stato sociale: analisi del welfare italiano tra squilibri, privatizzazioni e futuro sostenibile

 
Il suicidio dello Stato sociale: analisi del welfare italiano tra squilibri, privatizzazioni e futuro sostenibile
di Luca Lippi

L’esperienza quotidiana del cittadino italiano si scontra sempre più spesso con una realtà paradossale: le liste d’attesa nella sanità si allungano, le bollette dei servizi essenziali, un tempo considerati beni pubblici, raggiungono cifre da rata automobilistica, e la sensazione diffusa è quella di un progressivo abbandono. Non si tratta di una percezione distorta né di una sfortunata congiuntura temporanea. È, piuttosto, l’effetto tangibile di un processo strutturale in atto da decenni: il lento ma inesorabile ritiro dello Stato in favore del mercato.
Per comprendere la portata di questa trasformazione, e cosa essa comporti per il futuro della collettività, è necessario superare la cronaca spicciola e osservare l'architettura stessa del nostro Welfare State.

IL BUON, VECCHIO STATO SOCIALE

Lo stato sociale non è un semplice erogatore di servizi, ma la concretizzazione di un patto di solidarietà: la decisione collettiva di proteggere l’individuo nei momenti di fragilità, dalla malattia alla perdita del lavoro, fino alla vecchiaia. È una conquista che in Italia ha avuto una gestazione complessa, accelerata dai traumi delle guerre mondiali e cristallizzata nella Costituzione, fino a raggiungere il suo apice nel 1978 con l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale universalistico.

TANTA SPESA POCA RESA

Tuttavia, quel modello, che prometteva di rimuovere gli ostacoli alla cittadinanza, oggi mostra evidenti segni di cedimento. E qui emerge il primo vero paradosso: l’Italia non spende poco per il sociale. Al contrario, i dati ci dicono che il nostro Paese destina circa il 30 per cento del proprio Prodotto Interno Lordo al welfare, posizionandosi ai vertici delle classifiche internazionali per spesa in rapporto alla ricchezza prodotta. Nel 2024, la spesa sociale ha sfiorato i 600 miliardi di euro.
Eppure, il servizio percepito dal cittadino è in costante degrado. Come si spiega questa dissonanza?
La risposta risiede nella composizione della spesa. Il nostro è un welfare profondamente sbilanciato, che guarda più al passato che al futuro.

IL DRAMMA DELLA VECCHIAIA

La voce che cannibalizza le risorse è quella pensionistica: su 600 miliardi di spesa totale, ben 320 miliardi sono assorbiti dalle pensioni. Si tratta di una cifra che i contributi versati dai lavoratori attivi non riescono a coprire, generando un "buco" di oltre 40 miliardi l'anno che deve essere colmato dalla fiscalità generale.
Mentre la spesa per l'istruzione rimane stagnante e quella sanitaria fatica a tenere il passo con le esigenze, le risorse vengono drenate per sostenere una popolazione sempre più anziana. È una scelta politica precisa, che sacrifica la formazione delle nuove generazioni e la prevenzione sanitaria sull'altare della previdenza.

Le proiezioni della Ragioneria dello Stato offrono uno sguardo lucido e preoccupante sui decenni a venire. L'invecchiamento della popolazione porterà la spesa pensionistica e sanitaria a crescere ulteriormente, toccando l'apice intorno al 2040.

Per i lavoratori di oggi – i Millennials e la Gen Z – questo scenario implica una doppia penalizzazione: dovranno sostenere il peso di un sistema costoso durante la loro vita lavorativa, per poi ritirarsi con assegni pensionistici drasticamente ridotti rispetto ai loro predecessori.
Il tasso di sostituzione, ovvero il rapporto tra l'ultimo stipendio e la pensione, è destinato a crollare dal 73 per cento del 2010 a meno del 60 per cento nel 2070.

Di fronte a questo scenario, la politica si è spesso rifugiata in soluzioni di facciata o, peggio, in promesse insostenibili. L'unico argine che oggi impedisce al debito pubblico di esplodere verso cifre da bancarotta (proiettate verso il 200 per cento del PIL in assenza di correttivi) è costituito da quei meccanismi automatici tanto odiati dall'opinione pubblica: l'adeguamento dell'età pensionabile alla speranza di vita e la revisione dei coefficienti di trasformazione.

Sono strumenti tecnici, freddi, che impongono di lavorare più a lungo man mano che la vita media si allunga, ma che garantiscono la tenuta dei conti che la politica, ciclicamente tentata dal consenso immediato, rischierebbe di far saltare.

PRIVATIZZAZIONI, ALTRO DRAMMA

Spesso si invoca la privatizzazione come panacea: vendere i "gioielli di stato" per abbattere il debito. Ma anche questa narrazione si scontra con la dura realtà dei numeri.
Le privatizzazioni italiane, storicamente, si sono rivelate operazioni finanziariamente miopi. Vendere asset strategici e redditizi (come Poste o quote di aziende energetiche) per fare cassa immediata significa rinunciare a flussi di dividendi futuri superiori agli interessi risparmiati sul debito.

È un’operazione in perdita: si vende l’auto per pagare una vacanza, restando poi a piedi.
Inoltre, come certificato dalla Corte dei Conti, le privatizzazioni nei servizi pubblici locali hanno spesso portato a un aumento delle tariffe per i cittadini senza un corrispettivo miglioramento della qualità, impoverendo al contempo il patrimonio strategico e geopolitico del Paese.

C’È SOLUZIONE?

È inequivocabile che il modello di welfare monolitico, interamente a carico dello Stato, appartenga al passato.
Ci stiamo dirigendo verso un welfare mix, un sistema a più pilastri dove la copertura pubblica garantisce i livelli essenziali e le tutele minime, ma richiede necessariamente l'integrazione del privato, del terzo settore e della responsabilità individuale.

Fondi pensione integrativi, assicurazioni sanitarie e welfare aziendale non saranno più opzioni accessorie per i più abbienti, ma diverranno componenti strutturali della sicurezza sociale di ogni cittadino.

RIPRISTINARE CON ASSOLUTA DETERMINAZIONE L’“INTERESSE NAZIONALE”

Di sicuro lo Stato dovrà garantire tutele nel controllo dei costi e delle prestazioni assicurate; ancora meglio, lo Stato dovrebbe diventare imprenditore e mettersi in concorrenza con i privati allo scopo di impedire “cartelli” e speculazioni.

Questa transizione impone un ripensamento culturale profondo.
Richiede di abbandonare l'illusione che lo Stato possa provvedere a tutto indefinitamente e di accettare la necessità di pianificare il proprio futuro economico con strumenti nuovi.

Se il welfare deve evolvere da semplice "bancomat" assistenziale a rete intelligente di protezione, la consapevolezza di questi meccanismi è l'unica arma a disposizione del cittadino per non subire passivamente il cambiamento.