Le parole pronunciate da Leone XIV, in occasione del suo primo viaggio apostolico in Libano, non sono state un esercizio di mera cortesia diplomatica, ma una vera provocazione spirituale. Hanno scoperto e toccato un nervo culturale che rileva lo status febbricitante della politica europea: come convivere tra visioni religiose diverse senza rinunciare alla propria identità?
Il punto, oggi come allora, è che l’altro non è un frammento estraneo da sopportare, ma un appello alla nostra identità. Ma questa identità, lo ricordava Benedetto XVI a Ratisbona, non può consegnarsi a un dialogo svuotato di ragione. «Chi agisce contro la ragione agisce contro la natura di Dio», affermava citando Manuele II Paleologo.
Non basta dunque “tollerare”; occorre interrogarsi su ciò che fonda la nostra stessa capacità di incontro.
Eppure, una certa cultura europea ha trasformato la tolleranza in una forma sofisticata di auto-dissoluzione. Norberto Bobbio avvertiva che, senza un nucleo di valori condivisi, la tolleranza rischia di ridursi a pura “neutralità etica”: un vuoto che accoglie tutto perché non crede più in nulla. E in questo vuoto Hanna Arendt vedeva l’abbaglio della “banalità del conformismo”: l’accettare tutto senza criterio, per semplice stanchezza spirituale.
Il rischio è reale: chiamare inclusività ciò che in realtà è disorientamento culturale.
Perché la tolleranza, nella sua forma più fragile, è indifferenza mascherata. È dire: “Ogni visione vale l’altra”, non per rispetto, ma per mancanza di un criterio. È la dissoluzione del giudizio, non il dialogo.
La società europea rivive un paradosso antico: la tolleranza moderna, nata per sostituire il cristianesimo, oggi pretende che il cristianesimo taccia per continuare ad esistere. Il fantasma di Voltaire, che nel Trattato sulla tolleranza conclude con il suo velenoso auspicio: «écrasons l’infâme!», sembra tornare ancora una volta ad ispirare le linee culturali accademiche e partitiche.
Ma di fronte a questa genealogia sospetta, la visione cristiana indica un’altra via: più alta ed esigente. In Fratelli tutti, Papa Francesco propone una fraternità che non nasce dalla cancellazione delle differenze, bensì dalla loro fecondità reciproca: un poliedro, non una fusione. È la stessa logica dell’inculturazione: il Vangelo non si afferma azzerando le culture, ma entrando in esse, trasfigurandole dall’interno. Come ricordava Paul Ricoeur, «l’identità non è un blocco immobile, ma una fedeltà creativa».
Da qui il vero nodo: con quale identità ci vogliamo presentare al dialogo? Con una identità timorosa, che chiede scusa per esistere? O con una identità matura, capace di ospitalità senza rinunciare alla propria forma?
L’incontro autentico nasce da un equilibrio fra libertà e radicamento. Una società che accoglie senza discernere non è aperta, è vulnerabile. Una società che si chiude senza dialogare non è forte, è sterile.
L’Italia ha davanti un compito che non è politico ma antropologico: comprendere se la parola “tolleranza” sarà un ponte o un solvente, una occasione di maturazione o un alibi per non prendere posizione. La domanda non è: “la tolleranza cancellerà i valori cristiani?” La domanda è: “sappiamo ancora esprimerli in un mondo pluralista?”
La fraternità non nasce dalla paura dell’altro, ma dalla solidità di sé. E l’inclusività, se radicata in una forma culturale viva, non è annullamento; è una possibilità nuova di futuro condiviso.
Forse è questo il punto che le parole del Papa, dal Libano, hanno voluto insinuare: la tolleranza non è un dovere politico, ma una prova di maturità spirituale. In questo dramma di smarrimento l’Italia saprà accettare e superare quest’ulteriore prova?
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Sacerdote della diocesi di Albano