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Europa in crisi, il caso Bulgaria svela le fratture dell’Unione e il peso sui Paesi contributori

 
Europa in crisi, il caso Bulgaria svela le fratture dell’Unione e il peso sui Paesi contributori
di Luca Lippi

L'EUROPA PARASSITA: VIVONO CON I NOSTRI SOLDI MENTRE L'UE AFFONDA

Le immagini delle piazze piene e delle proteste che arrivano dalla Bulgaria non ci raccontano solo una storia locale. Dietro quel malcontento, che qualcuno vorrebbe liquidare come un problema di corruzione interna o di governi instabili, si nasconde una verità molto più scomoda che riguarda l'intera impalcatura dell'Unione Europea. È il segnale che il meccanismo si sta inceppando proprio lì, in quei paesi dell'Est che per anni hanno vissuto all'ombra di Bruxelles, prendendo molto e dando poco. Per capire cosa sta succedendo, dobbiamo allargare lo sguardo e analizzare con freddezza la situazione di quelli che potremmo definire i "paesi satellite" dell'ex blocco sovietico.

DUE BLOCCHI, DUE DESTINI DIVERSI


Per fare chiarezza è necessario spiegare una distinzione geografica ed economica fondamentale, spesso ignorata. Quando guardiamo a Est, dobbiamo separare due gruppi di nazioni. Da una parte ci sono gli stati ex Unione Sovietica, ovvero le tre repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia, Lituania) che non solo sono entrate nell’Unione Europea, ma hanno adottato l’euro come moneta, legandosi mani e piedi al destino della moneta unica. Dall'altra parte, invece, ci sono i paesi del cosiddetto "ex Patto di Varsavia": Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Romania e, appunto, la Bulgaria. A parte la Slovacchia, che ha scelto l’euro nel 2009, tutti questi stati hanno fatto una scelta molto furba: sono entrati nel club europeo per godere dei benefici, ma si sono tenuti stretta la loro moneta nazionale.

Qui scatta il primo cortocircuito. Sulla carta, chi entra nell’Unione Europea avrebbe quasi l'obbligo, prima o poi, di adottare l’euro. Ma a questi paesi è stata concessa un’eccezione – definita “temporanea” – che però non ha mai avuto una data di scadenza reale. È stato permesso loro di restare in un limbo comodo: incassare gli assegni dell’Europa mantenendo però la sovranità della propria banconota, con la vaga promessa di adeguarsi in futuro. Ed è qui che la situazione attuale della Bulgaria diventa emblematica. Questo paese ha chiesto di entrare nell’Eurozona dal prossimo primo gennaio, fissando il cambio della propria moneta, il Lev, allo stesso valore che aveva il vecchio Marco tedesco, dato che ne seguiva l’andamento.

IL PARADOSSO DELL'EURO: DA OPPORTUNITÀ A CONDANNA


Mentre i vertici europei, come Ursula von der Leyen e Christine Lagarde, applaudono a questo ingresso parlando di "grande opportunità", "competitività" e "resistenza alle turbolenze", la realtà percepita dalla gente è opposta. I cittadini bulgari scendono in piazza in manifestazioni oceaniche perché hanno paura. Hanno visto cosa è successo nella vicina Croazia: l’arrivo dell’euro ha fatto esplodere i prezzi, portando un’inflazione che mangia i risparmi. Le parole rassicuranti dei banchieri centrali suonano come una beffa per chi teme di non arrivare a fine mese. La gente non si fida più di una narrazione europea che descrive l’euro come una medicina miracolosa, quando l’esperienza quotidiana suggerisce che sia veleno per il potere d’acquisto.

A questo si aggiunge un quadro politico disastroso. La Bulgaria è l’esempio perfetto dell’ingovernabilità: i cittadini sono andati alle urne sette volte in quattro anni, producendo sempre lo stesso risultato, ovvero un parlamento frammentato e governi debolissimi che cadono uno dopo l'altro. Ma il problema non è solo di Sofia.

LA FINE DEL "BANCOMAT" EUROPEO


Il vero nodo della questione, quello che rende la situazione esplosiva, è di natura economica. I paesi dell’ex Patto di Varsavia sono, tecnicamente parlando, "beneficiari netti". Spieghiamo questo termine in modo molto semplice: significa che ogni anno ricevono dalle casse dell’Unione Europea molti più soldi di quelli che versano. Per anni, la loro economia si è retta in piedi grazie ai miliardi trasferiti dai grandi paesi contributori, ovvero Germania, Francia e Italia. Questi stati dell’Est hanno vissuto, di fatto, alle spalle dei contribuenti italiani, tedeschi e francesi.

Il giocattolo, però, si è rotto. Oggi, i "grandi pagatori" sono a loro volta in una crisi profonda. La Germania è ferma, la Francia è in difficoltà e l’Italia arranca. Non ci sono più le risorse per mantenere questi satelliti che non producono ricchezza autonoma sufficiente. Il malcontento che vediamo in Bulgaria, e che cova sotto la cenere in Polonia, Romania o Ungheria, nasce da qui: il flusso di denaro facile sta finendo perché chi pagava il conto non ha più soldi.

UNA VIA D'USCITA TRAUMATICA


La conclusione di questa analisi ci porta a uno scenario inquietante per Bruxelles. Poiché paesi come la Polonia, l’Ungheria o la Repubblica Ceca hanno mantenuto la propria moneta, per loro sganciarsi dall’Unione Europea sarebbe molto meno doloroso rispetto a noi. Hanno una via di fuga. Se la crisi economica dovesse peggiorare – e peggiorerà, visto che l’Europa è arrivata al punto di voler confiscare i beni russi per far quadrare i conti (segno di disperazione finanziaria totale) – questi stati potrebbero decidere che il gioco non vale più la candela. Sono saliti sulla nave Europa per convenienza, e per convenienza potrebbero scendere prima che affondi definitivamente, lasciando noi con il cerino in mano. La crisi non è solo economica, ma esistenziale: un progetto nato male che sta mostrando tutte le sue crepe strutturali.