Debito USA, politiche monetarie e impatti sui rendimenti e l'azionario. L'allarme di Dimon sul debito USA, la tenuta di Powell sui tassi e il probabile taglio della BCE a giugno (verso il 2 per cento?): come queste dinamiche, con il Giappone sullo sfondo, si preparano a influenzare rendimenti e mercati azionari
di Luca Lippi
L'ALLARME DI DIMON: IL PESO INSOSTENIBILE DEL DEBITO USA
Jamie Dimon, CEO di JPMorgan Chase, ha lanciato un monito inequivocabile: le dimensioni del debito statunitense stanno raggiungendo livelli critici. Entro il 2026, tra rifinanziamenti e nuove emissioni, gli Stati Uniti dovranno collocare sul mercato una massa di titoli senza precedenti. Il nocciolo del problema risiede nell'insostenibilità dei costi legati agli interessi sul debito, che ammontano a circa 1.100 miliardi di dollari annui per gli USA – una cifra che, per dare un ordine di grandezza, è oltre dieci volte superiore ai circa 100 miliardi pagati dall'Italia.
Negli anni post-Covid, Dimon ha costantemente espresso preoccupazioni per una recessione incombente, mercati finanziari sopravvalutati e un rialzo borsistico da lui giudicato insensato, guadagnandosi una certa fama di "bastian contrario". Considerando che JPMorgan gestisce attivi per oltre 3.500 miliardi di dollari, le sue parole hanno un peso notevole, sebbene si possa speculare sulle motivazioni dietro tali esternazioni. Recentemente, Dimon ha anche sostenuto la necessità di banche globali più grandi, una posizione che solleva interrogativi sulla concentrazione del rischio, memori della lezione di Lehman Brothers.
LA SFIDA DEL RIFINANZIAMENTO
Entro la fine del 2026, si stima che l'America dovrà rifinanziare circa 15 trilioni di dollari del suo debito. Con un debito pubblico complessivo che si aggira sui 35 trilioni di dollari, una porzione significativa dovrà essere rinegoziata. Non si tratta solo di nuova emissione, ma principalmente di rinegoziare il debito pregresso, con eventuali aggiunte per coprire le spese correnti.
CHI COMPRERÀ IL DEBITO USA? IL RUOLO DI CINA, EUROPA E GIAPPONE
Cina
Pechino potrebbe mostrare minor interesse in caso di escalation nella guerra commerciale e nella corsa ai dazi. Se il partner con cui si ha un importante surplus commerciale impone restrizioni, l'incentivo ad acquistarne il debito per sostenerne la capacità di spesa – anche attraverso costosi programmi di welfare interni – diminuisce sensibilmente.
Europa
Anche l'Europa, collettivamente la maggiore detentrice estera di bond USA, potrebbe ricalibrare le proprie strategie in base all'evoluzione dei trattati commerciali. In questo contesto, alcuni investitori europei potrebbero essere tentati di usare bond USA per finanziare emissioni proprie, lucrando sul differenziale, ma ciò non risolverebbe il problema del collocamento del debito statunitense data la sua vastità.
Giappone
Il paese del Sol Levante presenta un rapporto debito/PIL stratosferico, al 260 per cento, un unicum a livello globale. Tuttavia, la situazione è stata a lungo gestita grazie agli massicci acquisti di titoli di stato da parte della Bank of Japan (BoJ). Recentemente, però, la BoJ ha iniziato a ridurre tali acquisti e a tollerare rendimenti leggermente più alti. La motivazione risiede nell'eccessivo indebolimento dello yen, che alimenta l'inflazione importata, conseguenza di una politica monetaria divergente rispetto a quella delle altre principali banche centrali. Un ulteriore allentamento del controllo sui tassi da parte della BoJ comporterebbe un aumento dei rendimenti nipponici, incentivando gli investitori giapponesi a rimpatriare capitali e acquistare debito domestico, potenzialmente riducendo o dismettendo le loro posizioni in Treasury USA.
LA BCE VERSO UN TAGLIO A GIUGNO: TASSI AL 2%?
Parallelamente, il meeting della Banca Centrale Europea del 5 giugno è molto atteso. Si prevede un nuovo taglio dei tassi di 0,25 punti base, che potrebbe portare il tasso di riferimento al 2 per cento, segnando una fase significativa del ciclo di allentamento monetario. Le implicazioni di questa mossa, soprattutto se divergente rispetto alla FED, saranno attentamente monitorate dai mercati, con possibili ripercussioni sui flussi di capitale e sui mercati azionari.
LA LINEA DURA DI POWELL: TASSI USA E INFLAZIONE
Dall'altra parte dell'Atlantico, la Federal Reserve (FED), forte di un mercato del lavoro ancora robusto, appare restia a ridurre i tassi, almeno finché non avrà chiara evidenza dell'impatto dei dazi sull'inflazione. L'inflazione resta, infatti, lo spauracchio numero uno per la banca centrale americana. Finché persisterà il timore che i dazi possano alimentare una recrudescenza inflattiva, è probabile che Jerome Powell manterrà i tassi saldamente ancorati ai valori attuali. Considerando che le nuove tariffe (soprattutto quelle verso la Cina) entreranno pienamente in vigore o i loro effetti si manifesteranno nei prossimi mesi, servirà tempo per valutarne le conseguenze. Alla luce di ciò, la cautela di Powell, ancorata al duplice mandato della FED (stabilità dei prezzi e piena occupazione), appare comprensibile.
PROSPETTIVE E RISCHI: L'EQUILIBRIO PRECARIO DELL'"IMPERO USA"
Allo stato attuale, il quadro appare più confuso che orientato verso una chiara strategia. La sensazione è che questo contesto di timori e incertezze crescenti finirà per riflettersi negativamente anche sui mercati azionari. La propensione al rischio non è più quella di qualche tempo fa, ben lontana da quel senso di relativa "invulnerabilità" che i mercati hanno esibito in passato. Sebbene gli indici possano mostrare ancora una certa inerzia al rialzo, gli operatori appaiono più nervosi. L'estate, con volumi di scambio fisiologicamente più bassi, potrebbe rivelarsi decisiva, favorendo potenzialmente movimenti di mercato più ampi.
Sebbene il paragone possa far storcere il naso a qualcuno per implicazioni ideologiche, in termini puramente economici gli Stati Uniti possono essere visti come il centro di un sistema globale. Storicamente, la nazione al centro di un tale sistema tende ad avere una bilancia commerciale negativa. La spesa statunitense verso l'estero sostiene la domanda globale e la capacità di acquisto degli altri paesi. Le nazioni che esportano significativamente verso gli USA (come Cina, Giappone, Europa e Corea) hanno quindi interesse a mantenere "tonico" il sistema americano, affinché i consumatori statunitensi non contraggano gli acquisti.
UN RESHORING SU LARGA SCALA PORTEREBBE ALL'ESPLOSIONE DELL'INFLAZIONE
Questo meccanismo, tuttavia, rischia di incepparsi se si forza un rientro massiccio della produzione negli Stati Uniti senza una strategia condivisa. Produrre negli USA è generalmente più costoso. Un reshoring su larga scala, senza un aumento della capacità di spesa dei consumatori americani, porterebbe a un'esplosione inflattiva, dato che i beni costerebbero di più. Questo è uno dei motivi per cui la FED mantiene la guardia alta sull'inflazione e non abbassa i tassi, come ribadito da Powell. Questa situazione, con tassi elevati, aggrava la pressione sui consumatori americani, già gravati da alti costi del credito al consumo, alimentando un pericolo latente per la stabilità economica.
Sgomberando il campo da speculazioni complottiste, spesso veicolate da analisti con possibili secondi fini, l'idea di un default USA è una costruzione narrativa priva di fondamento. Tuttavia, il contesto attuale genera indubbiamente incertezza e accresce l'esigenza di delucidazioni sui reali piani dell'amministrazione Trump. Se l'utilizzo dei dazi come arma negoziale è una tattica comprensibile, risulta più oscura e anacronistica la strategia di riportare la produzione in patria costi quel che costi.