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IL GIGANTE D'ARGILLA. PERCHÉ L'EUROPA, RICCA E COLTA, È UN NANO GEOPOLITICO

 
IL GIGANTE D'ARGILLA. PERCHÉ L'EUROPA, RICCA E COLTA, È UN NANO GEOPOLITICO
Luca Lippi

Sulle sponde orientali dell'Europa infuria una guerra di aggressione, mentre alle porte del Mediterraneo si consuma un massacro. Per il cittadino europeo, la sensazione dominante non è solo l'orrore, ma una profonda e radicata irritazione. La percezione è quella di un continente ricco, sofisticato e portatore di valori, eppure drammaticamente impotente, un attore non protagonista sulla scena globale che esso stesso contribuisce a finanziare. La gestione delle crisi cruciali non è in mano alle cancellerie di Bruxelles, Parigi o Berlino, ma è delegata, per inerzia o incapacità, ai soliti giganti: Stati Uniti, Cina e Russia.

Ancora una volta, il dibattito pubblico sull'Europa si arena sulle secche di slogan vuoti e suggestioni emotive. La visione di un'Unione Europea più forte e autoritaria, presentata come un "sogno" irrinunciabile, continua a essere la risposta preconfezionata a ogni domanda complessa. Questa retorica, pur facendo leva sul desiderio legittimo di pace e stabilità, maschera la sua natura puramente demagogica: offre una soluzione semplice a problemi che non lo sono affatto.

Il vero dramma, tuttavia, non è tanto la propaganda di chi, come l'onorevole Provenzano, recita un ruolo impostogli dalla disciplina di partito, quanto il deserto culturale in cui queste parole cadono. In un paese dove il dibattito serale verte sulla replica di una fiction piuttosto che sulle implicazioni di una dichiarazione politica, la demagogia ha gioco facile. Se la cultura critica di un popolo si misura dalla sua capacità di discernere e interrogare il potere, allora la disattenzione collettiva diventa il terreno più fertile per chi vende sogni autoritari in cambio di consenso.

Proviamo a colmare l’ignavia di un popolo sfogliando le pagine della Storia per far comprendere quanto siano inutili le stille di presunta autorevolezza della nostra classe politica.

Il paradosso europeo è lampante: come può una delle più grandi potenze economiche del mondo non riuscire a governare nemmeno la propria sicurezza, il primo e fondamentale livello di sovranità? La risposta risiede in un modello di sviluppo che è stato al contempo la nostra fortuna e la nostra condanna, e in una paralisi strategica coltivata per decenni.

Il patto faustiano dell'economia europea

La prosperità europea del secondo dopoguerra, accelerata dalla globalizzazione e protetta dalla Pax Americana, si fonda su un'architettura precisa ed estremamente fragile. A partire dall'Ostpolitik tedesca, l'Europa ha costruito la sua potenza industriale su un tacito accordo con Mosca: l'accesso a un flusso quasi illimitato di idrocarburi a basso costo. Questo patto, consolidatosi dopo il crollo del Muro di Berlino, ha alimentato le nostre fabbriche, permettendoci di specializzarci in prodotti ad alto valore aggiunto – macchinari, farmaceutica, automotive – e di dominare i mercati di esportazione.

In cambio di questa energia a buon mercato, abbiamo consapevolmente chiuso un occhio, e spesso tutti e due, sul consolidamento di un regime autoritario e oligarchico in Russia, sulla repressione del dissenso e sull'assassinio di giornalisti. I nostri "valori" si sono dimostrati negoziabili di fronte alla stabilità delle forniture. Siamo diventati i campioni della globalizzazione, con una bilancia commerciale invidiabile, ma ci siamo trasformati in un organismo iperspecializzato e pericolosamente dipendente. La nostra economia si regge sulla capacità di vendere prodotti complessi al resto del mondo, ma questo ci rende vulnerabili a ogni shock esterno: dazi, destabilizzazioni geopolitiche, interruzioni delle catene di approvvigionamento. Se il mondo smette di comprare, il nostro modello collassa.

A questa dipendenza energetica e commerciale se ne aggiungono altre, più subdole ma altrettanto vincolanti. La nostra sicurezza informatica è in gran parte appaltata a tecnologie americane e israeliane. I nostri mercati finanziari sono meno liquidi e influenti di quelli di Wall Street. I giganti tecnologici che definiscono la nostra era digitale sono tutti americani. Siamo eccellenti produttori di beni, ma importatori cronici di servizi strategici, inclusa la nostra stessa difesa.

La "Sterilizzazione" strategica: un obiettivo condiviso dai Grandi

La delega totale della sicurezza agli Stati Uniti attraverso la NATO ci ha permesso di risparmiare per decenni sulle spese militari, ma ha anche atrofizzato qualsiasi capacità difensiva autonoma. L'idea di un esercito europeo oggi non è un progetto, ma una chimera, frenata dalla mancanza di standardizzazione, di coordinamento industriale e, soprattutto, di una visione politica comune.

Questo stato di minorità non è un caso, ma il risultato di una precisa e costante pressione esterna. Non si tratta di un complotto segreto, ma di una palese convergenza di interessi. Per Washington, Mosca e Pechino, un'Europa politicamente unita e militarmente autonoma non è un partner, ma un potenziale rivale. È quindi nel loro interesse strategico mantenerla frammentata, dipendente e, in ultima analisi, "sterilizzata".

Questa dinamica è una costante della storia. Ogni volta che il cuore del continente, la Mitteleuropa, ha tentato di consolidarsi e proiettare potenza – dall'impero napoleonico alla Germania guglielmina – le potenze periferiche (Regno Unito e Russia, poi sostituite dagli Stati Uniti) si sono coalizzate per schiacciarla. Anche durante la Guerra Fredda, Washington e Mosca, pur essendo avversari ideologici, agivano come custodi concordi delle rispettive sfere di influenza in Europa, collaborando attivamente per reprimere le ambizioni autonome di potenze come Francia e Regno Unito, come dimostrò la crisi di Suez. Questa tacita alleanza per contenere l'Europa è proseguita anche dopo il 1989. La Russia non ha mai aspirato a diventare un membro dell'UE; ha sempre cercato un dialogo alla pari con l'unica altra vera potenza, gli Stati Uniti, per spartirsi il mondo, non per essere un pezzo di un mosaico europeo.

L'anestesia della "Fine della Storia"

Il problema più grave, tuttavia, è interno. Le classi dirigenti europee, sia politiche che intellettuali, sono figlie dell'era post-Guerra Fredda. Sono cresciute nella beata illusione della "fine della storia": la convinzione che la globalizzazione, la democrazia liberale e la crescita economica infinita sotto l'ombrello protettivo americano fossero uno stato naturale e permanente della condizione umana, e non il fragile risultato di un preciso momento storico.

Questa mentalità ha prodotto una generazione di leader privi degli strumenti culturali e strategici per immaginare un mondo diverso. Di fronte al brutale ritorno della geopolitica, della guerra e della competizione tra potenze, l'Europa si scopre un bisonte burocratico: pesante, lento, privo di armi e, peggio ancora, di immaginazione. Non riusciamo a pensare, e quindi a proiettarci, in questo nuovo paradigma.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: l'incapacità di forzare una pace ai nostri confini, l'assenza totale di influenza nei conflitti che ci toccano direttamente, e una paralisi morale che svuota di ogni significato i valori che pretendiamo di incarnare. Celebriamo la nostra coscienza storica con film e commemorazioni, ma restiamo inerti quando la storia bussa violentemente alla nostra porta.

Questa impotenza ha un costo tangibile: la progressiva erosione del benessere per una popolazione che, in ultima analisi, è interessata soprattutto a quello. E quando un popolo stanco e impoverito perde la speranza e non intravede più un futuro, diventa preda facile per chi offre sogni a buon mercato: soluzioni semplici, nazionaliste, autoritarie. Cialtrone, ma terribilmente accattivanti. La paralisi geopolitica di oggi sta incubando le catastrofi politiche di domani.