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Cancro alla prostata: allarme per gli effetti psicologici della terapia ormonale

 
Cancro alla prostata: allarme per gli effetti psicologici della terapia ormonale

La Prostate Cancer Foundation of Australia chiede un supporto psicologico strutturato per i pazienti in terapia ADT, dopo l’emergere di un legame tra trattamento e pensieri suicidi

Mentre il trattamento ormonale rappresenta uno dei pilastri fondamentali nella gestione del cancro alla prostata in fase avanzata, cresce l’allarme tra gli esperti per le ricadute psicologiche che questa terapia può generare nei pazienti. In particolare, secondo studi diffusi dalla stampa medica australiana, circa il 12% degli uomini a cui viene diagnosticata la malattia sviluppa pensieri suicidi, una percentuale significativamente associata alla terapia di deprivazione androgenica (ADT).

A lanciare l’allarme è la Prostate Cancer Foundation of Australia (PCFA), che chiede una riforma urgente delle modalità di prescrizione della terapia ADT, in seguito ai numerosi casi di suicidio registrati tra pazienti sottoposti al trattamento.

Che cos’è la terapia ADT

La terapia di deprivazione androgenica (ADT) è un trattamento ormonale indicato per rallentare la progressione del tumore bloccando il testosterone, ormone dal quale il cancro alla prostata trae nutrimento. Si somministra comunemente sotto forma di iniezioni farmacologiche volte a inibire la produzione di testosterone.

Anche se efficace nel contrastare la crescita tumorale, la terapia comporta effetti collaterali importanti, tra cui alterazioni dell’umore, depressione, ansia e calo della qualità della vita. Alcuni pazienti, colpiti dalla gravità di questi sintomi, arrivano purtroppo a gesti estremi.

La richiesta di un nuovo approccio clinico

«Siamo a conoscenza di numerosi casi in cui si ritiene che la terapia ormonale sostitutiva abbia avuto un ruolo nel deterioramento della salute mentale degli uomini, portandoli al suicidio», ha dichiarato Anne Savage, direttrice generale della PCFA.
«Nel complesso, circa il 12% degli uomini colpiti dal cancro alla prostata avrà pensieri suicidi, significativamente associati al trattamento ormonale».

Secondo la PCFA, tutti gli uomini colpiti dalla malattia dovrebbero essere sottoposti a screening psicologico e seguiti da infermieri specializzati nella salute mentale oncologica, in grado di offrire un accompagnamento continuo durante tutte le fasi della terapia.

Il supporto dovrebbe comprendere:

  • colloqui con il paziente e i suoi familiari;
  • educazione terapeutica sugli effetti collaterali;
  • strategie per preservare il benessere mentale e la qualità della vita.

I dati australiani: un quadro da non sottovalutare

Ogni anno, più di 26.000 uomini in Australia ricevono una diagnosi di cancro alla prostata. Circa 4.000 pazienti si trovano in stadio 3 o 4 e sono dunque candidati alla terapia ormonale sostitutiva. A molti altri viene proposta l’ADT in caso di recidiva o progressione della malattia.

Una ricerca riportata dalla stessa PCFA ha evidenziato come gli uomini sottoposti ad ADT siano più a rischio di suicidio rispetto alla media. Gli studi internazionali e australiani hanno ampiamente documentato questi effetti, ma la consapevolezza nel sistema sanitario rimane ancora insufficiente.

Non interrompere la terapia, ma accompagnarla

Pur riconoscendo la gravità delle ricadute psichiche, la Dott.ssa Savage ha voluto sottolineare che la terapia ormonale rimane salvavita:
«Quello che non vogliamo è che gli uomini interrompano la terapia ormonale. Si tratta di un trattamento salvavita che impedisce la diffusione del cancro alla prostata», ha affermato.
«Quello che dobbiamo fare, però, è garantire che gli uomini non siano soli con la malattia o con la sua cura».

La probabilità di suicidio rimane fortunatamente bassa, ma la correlazione tra inizio della terapia ormonale e disagio psicologico è ormai chiara. Il caso australiano rappresenta un monito per tutti i sistemi sanitari: occorre integrare la cura del corpo con quella della mente, soprattutto nei pazienti oncologici più fragili. Un approccio multidisciplinare e umano può fare la differenza tra la sopravvivenza clinica e il reale benessere del paziente.

Redazione