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Nel silenzio dell’Aula Paolo VI, Muti ricorda che la musica trascende il tempo

 
Nel silenzio dell’Aula Paolo VI, Muti ricorda che la musica trascende il tempo
di Donato Pio Dota*

Ieri sera, nell’Aula Paolo VI, davanti al Premio che porta il nome di quel Papa che ha osato dire che la musica è teologia udibile, la bellezza non ha cercato consenso, ma ha imposto una domanda. E quando il maestro molfettese ha osato affermare che «Mozart è espressione tangibile di Dio», non ha offerto alla platea una retorica impregnata di cattolicesimo, bensì ha lanciato un appello intellettivo ad una umanità che ha smarrito l’ascolto giudicante dell’estetica.
Se Mozart è Dio che prende forma sonora, allora la musica dei grandi maestri è un linguaggio esigente, che domanda silenzio, ascolto, disciplina. Esattamente ciò che il nostro tempo fatica a concedere. E mi domando se l’uomo oggi sia ancora capace di porsi in ascolto di una musica capace di penetrare il mistero e scuotere la sua coscienza.

Muti non dirige, trasfigura. E quando lo fa, la musica smette di essere esecuzione e diviene esperienza che travolge.

La Messa di incoronazione di Carlo X di Luigi Cherubini ha reso questa domanda inevitabile. Non una musica “religiosa” nel senso emotivo del termine, ma musica liturgica in senso pieno: forma che regge il mistero. In Cherubini la liturgia non esprime l’assemblea, la plasma. Non cerca consenso, ma conversione. Ed è ineluttabile chiedersi quale musica celebra oggi la Chiesa? Una decorazione del sacro o una sua manifestazione?
Non è una disputa estetica, ma una scelta teologica. La musica liturgica rivela l’immagine di Dio che si intende trasmettere: un Dio rassicurante o un Dio che interpella, un Dio ridotto a emozione o un Dio che resta mistero?
Le parole del Papa, pronunciate ieri sera, hanno dato nome a questa tensione senza attenuarla. Richiamando Sant’Agostino, ha ricordato che la musica è scientia bene modulandi, arte di “guidare il cuore verso Dio”, e dunque via privilegiata per comprendere “l’altissima dignità dell’essere umano”. Non un accessorio della liturgia, ma un linguaggio che educa alla vocazione più profonda dell’uomo.
In questo orizzonte si colloca anche il riferimento a Benedetto XVI, quando il Papa ha ricordato che «la vera bellezza ferisce, apre il cuore, lo dilata». Una bellezza che non anestetizza, ma espone; che non accompagna semplicemente, ma chiede una risposta. È questo il senso autentico del Premio Ratzinger conferito a Muti: non la celebrazione di una carriera, ma il riconoscimento di «una vita interamente consacrata alla musica, luogo di disciplina e di rivelazione».
Disciplina è la parola chiave. Lo si è visto anche nel coinvolgimento dei giovani musicisti dell’Orchestra giovanile “Luigi Cherubini” e del Coro “Guido Chigi Saracini”. Non comparse, ma destinatari di una consegna. Perché la tradizione, quando è viva, non si conserva: si trasmette. E trasmettere significa esigere molto, non semplificare.
Muti non indica una nostalgia, ma una direzione. La sua è una pedagogia esigente dell’ascolto, che restituisce alla musica la sua responsabilità culturale, sociale e spirituale. In un tempo che consuma suoni senza comprenderli, la sua direzione ricorda che la bellezza non nasce per piacere, ma per misurare l’uomo con ciò che lo supera. Se la Chiesa vuole ancora parlare all’uomo contemporaneo, dovrà forse ripartire da qui: non da ciò che è immediato, ma da ciò che trascende. Non da una musica che accompagna, ma da una musica che giudica. E, proprio per questo, dilata il cuore.

*Sacerdote della diocesi di Albano