Le regioni del nostro paese sono troppe, povere e spesso non considerano affatto il contesto produttivo, economico e culturale dei nostri territori.
Mentre le regioni del Sud arrivano a spendere fino a tre quarti del proprio budget esclusivamente nella sanità, non rimane alcuno spazio di manovra per investire in infrastrutture, politiche di sviluppo o pianificazione industriale. Eppure, nonostante questa evidente fragilità, le regioni sono diventate sempre più potenti a scapito delle province. Queste ultime, invece, rappresentano il livello territoriale che fin dalla fondazione del Paese ha tenuto unita la nazione, gestendo con pragmatismo le strade, i trasporti e l'istruzione.
Ci si chiede allora come siamo finiti in questa situazione, specialmente se guardiamo ai nostri vicini europei, e che ruolo giochi in tutto questo la tanto discussa autonomia differenziata.
IL MOSAICO ASIMMETRICO E IL CONFRONTO EUROPEO
L’Italia regionale viaggia a due velocità. Esiste un sistema formale dove le competenze sono divise tra Stato e amministrazioni locali, ma questa spartizione non è equa.
Da una parte abbiamo le regioni a statuto speciale, che godono di benefici fiscali e poteri amministrativi superiori, dall'altra le regioni ordinarie che faticano a garantire i servizi minimi. Questa asimmetria crea squilibri non solo politici, ma soprattutto nella qualità della vita quotidiana dei cittadini.
Se osserviamo il panorama europeo, la differenza è marcata. In Germania, i Lander possiedono burocrazie solide e una capacità fiscale che permette loro di coordinarsi con lo Stato centrale per potenziare l'economia locale. La Francia, pur essendo storicamente centralista, gestisce regioni più grandi e omogenee sotto una regia nazionale ferma. La Spagna, invece, pur avendo forti autonomie regionali con spinte indipendentiste, garantisce ai propri territori un margine di manovra economica molto più ampio del nostro. L’Italia si ritrova così con troppi piccoli enti che hanno poca capacità di spesa reale.
LA TRAPPOLA DELLA SANITÀ E IL BLOCCO DELLO SVILUPPO
Il vero grande ostacolo per le amministrazioni regionali italiane è rappresentato dalla gestione della salute pubblica.
La sanità assorbe oggi oltre il 60 per cento della spesa pubblica regionale, superando i 135 miliardi di euro annui. Per molte regioni del Sud, questa voce di costo arriva a divorare quasi l’intero bilancio. Questo meccanismo trasforma le regioni in semplici distributori di welfare sanitario, lasciandole letteralmente senza un soldo per tutto ciò che dovrebbe definire il progresso di un territorio, come la creazione di infrastrutture o i piani industriali strategici.
Il paradosso è che, nonostante l’enorme quantità di risorse assorbite, molte di queste amministrazioni non riescono nemmeno a garantire i livelli essenziali di assistenza. Il risultato è un Paese che viaggia a velocità multiple, dove l’accesso a un ospedale o a una scuola efficiente dipende tragicamente dal codice postale di residenza.
LE PROVINCE DIMENTICATE E IL FENOMENO DELLE ISTITUZIONI ZOMBIE
In questo spostamento di potere verso l’alto, il livello amministrativo più vicino alla realtà geografica del Paese è stato svuotato. Le province, nate nell'Ottocento per dare una struttura coerente al Regno d'Italia, sono state progressivamente schiacciate dal regionalismo. Dopo la riforma del 2014, sono diventate enti di secondo livello, prive di elezione diretta e con bilanci drasticamente tagliati. Oggi viviamo in una condizione paradossale: le province sono istituzioni "zombie".
La Costituzione le vuole vive, ma lo Stato le ha private delle risorse necessarie per operare. Eppure, sono ancora loro a dover gestire oltre centotrentamila chilometri di strade e la manutenzione di tutte le scuole superiori. Gestiscono funzioni vitali con personale dimezzato e senza una vera forza politica, mentre le regioni, pur essendo politicamente forti, faticano a gestire territori che spesso non hanno nulla in comune tra loro.
I NUOVI GOVERNATORI E IL RISCHIO DELLA SECESSIONE SILENZIOSA
La trasformazione delle regioni in centri di potere ha favorito la nascita di vere e proprie élite dirigenti che spesso considerano il territorio come un feudo personale. Non è un caso che oggi si parli comunemente di "governatori" anziché di presidenti: figure che cementano il proprio consenso su sistemi di potere locali che durano decenni. Questo scenario rischia di aggravarsi con l'autonomia differenziata, che potrebbe spingere le regioni più ricche a trattenere maggiori imposte per gestire autonomamente trasporti ed energia, indebolendo ulteriormente il coordinamento nazionale. Un Paese che non riesce a coordinare i propri organi vitali come l'energia, il commercio e le infrastrutture è un corpo che rischia di paralizzarsi.
In un contesto globale dove grandi potenze decidono rapidamente come indirizzare le risorse, l'eccessiva frammentazione italiana rischia di trasformarsi in una debolezza strutturale, rendendoci meno autorevoli e più vulnerabili sullo scacchiere internazionale.