America in bilico: scontro interno e rischio di conflitto civile
Proteste, violenza politica, un dibattito pubblico sempre più avvelenato e omicidi mirati. Gli Stati Uniti stanno vivendo una divisione interna di una profondità rara. Questo scenario – anche se ingannevole e populistico - converge verso un unico, fondamentale interrogativo: analizzando le motivazioni politiche, le radici economiche e il collante sociale che tiene insieme il paese, come è possibile che gli Stati Uniti sembra stiano arrivando sulla soglia di un conflitto civile?
È noto agli osservatori delle questioni geopolitiche, che gli Stati Uniti hanno anticorpi molto sviluppati per determinati eventi. Emblematica è la reazione all’attacco alle Torri Gemelle e poi un'escalation di violenza politica segna da anni l'attualità americana. Nel 2020, l'FBI sventò il tentato rapimento della governatrice del Michigan, Gretchen Whitmer.
Dall’assalto al Campidoglio agli omicidi politici recenti
Il 6 gennaio 2021, una folla assediò il Campidoglio nel tentativo di impedire il riconoscimento della vittoria di Joe Biden, un assalto che causò quattro morti. Successivamente, ordigni esplosivi furono rinvenuti presso le sedi elettorali di entrambi i partiti. Nel 2022, un uomo fece irruzione in casa dell'allora Speaker della Camera, Nancy Pelosi, con l'intento di sequestrarla.
Più di recente, la violenza ha raggiunto nuovi picchi: nel giugno 2025, l'ex speaker democratica del Minnesota, Melissa Hortman, e suo marito sono stati assassinati. Poco dopo, Charlie Kirk, figura di spicco del conservatorismo giovanile, è stato ucciso in un campus universitario, in un clima già esasperato dal “tentato omicidio” di Donald Trump nel 2024.
Questo scenario, per quanto scioccante, non sorprende chi osserva da tempo le dinamiche americane. Che gli USA attivino tempestivamente i loro anticorpi è indubbio, ma il rischio di un ulteriore peggioramento è percepito come reale. Ma come si è arrivati a questo punto?
Le radici della violenza americana
Per comprendere la situazione attuale, è fondamentale ricordare un aspetto spesso trascurato in Europa: gli Stati Uniti sono una nazione fondata sulla violenza, sia per cultura che per struttura. La loro identità nazionale nasce e prospera attraverso il successo nell'uso della forza. La storia americana è una sequenza quasi ininterrotta di conquiste e guerre.
La nascita: la ribellione armata contro l'impero britannico.
L'espansione: la conquista del West, accompagnata dalla pulizia etnica dei nativi americani.
L'affermazione continentale: le guerre contro il Messico e la Spagna.
L'ascesa a potenza globale: le due guerre mondiali, seguite dai conflitti in Corea e Vietnam, e innumerevoli interventi, più o meno occulti, in Sud America.
L'era imperiale moderna: le guerre in Jugoslavia, Afghanistan e Iraq.
Questa storia ha forgiato un mito culturale potentissimo: quello della frontiera. L'idea del singolo individuo, padrone del proprio destino, che conquista il mondo contando solo sulla propria determinazione e, in ultima analisi, sulla propria capacità di esercitare violenza. Dal cowboy che si prende la sua terra al "sogno americano" dell'uomo che si fa da sé, questo immaginario è profondamente radicato nella psiche americana.
Gli Stati Uniti sono un impero relativamente giovane, gigantesco e armato fino ai denti. E un impero, per sua natura, amministra la violenza per imporsi sul mondo e rimanere tale. Analisti come Dario Fabbri sostengono che per un impero sia persino necessario mantenere una certa "soglia di sofferenza" interna (povertà, disuguaglianza) per generare una tensione sociale costante, una riserva di frustrazione che possa essere incanalata e scagliata verso l'esterno per mantenere il proprio dominio, che sia per sconfiggere il comunismo o per controllare risorse strategiche.
Le fratture interne e il "collante" istituzionale
Ma cosa succede quando questa enorme tensione non viene più proiettata all'esterno, ma implode all'interno del paese? Succede quando si rompono gli equilibri e i patti sociali che tenevano insieme le sue gigantesche contraddizioni.
Gli Stati Uniti sono da sempre un paese profondamente diviso. Divisione razziale: una vasta parte della popolazione discende da schiavi e ha vissuto per secoli come cittadini di seconda categoria. Il razzismo sistemico e la brutalità della polizia sono tutt'altro che un ricordo. Divisione geografica ed economica: le coste, urbanizzate e ricche (Hollywood, finanza, high-tech, università), si contrappongono a un entroterra impoverito, dalla Rust Belt (la cintura industriale in declino) alla Bible Belt del sud (è mirabile la descrizione di una parte della popolazione di quest’area a pagina 38 del libro “Il ricatto del tempo” del collega e scrittore Walter Rodinò), che spesso sopravvive di sussidi. Divisione politica: le fratture non sono solo tra Repubblicani e Democratici, ma anche al loro interno.
Da un lato, i sostenitori di Trump (MAGA) si scontrano con la vecchia élite intellettuale del partito; dall'altro, i Democratici sono spaccati tra liberal centristi e le variegate correnti della sinistra progressista.
Allora, perché queste divisioni non hanno mai portato al collasso? Per il principio spiegato da Daron Acemoglu e James Robinson, premi Nobel per l'economia, nel loro libro "Perché le nazioni falliscono". Una nazione prospera non per le sue risorse, ma per la qualità e la forza delle sue istituzioni: il rispetto per la divisione dei poteri, la magistratura e le regole condivise.
Il vero "collante" nazionale è stato il sentirsi tutti, alla fine, americani. L'idea di un progetto comune, di una "nazione sotto Dio, indivisibile, con libertà e giustizia per tutti". Anche i rituali che a noi europei possono sembrare retorici – il giuramento di fedeltà, la bandiera nelle scuole, l'inno prima degli eventi sportivi – servono a questo: a dare a tutti, bianchi o ispanici, ricchi o poveri, la prospettiva di essere parte di un'unica, grande repubblica dominante nel mondo.
La decomposizione: come si è arrivati a questo punto?
Questo collante si sta sgretolando. Le cause sono molteplici e complesse, ma possiamo individuarne alcune principali:
La fine del sogno americano. Dopo la grande crescita economica del XX secolo, è diventato palese che il sogno liberista di una prosperità accessibile a tutti è finito. Crisi economiche, delocalizzazione e deindustrializzazione hanno ampliato le disuguaglianze. Intere fasce della popolazione, soprattutto i bianchi poveri delle aree depresse, si sono ritrovate senza lavoro e senza prospettive, diventando le principali vittime di epidemie sociali come quella del Fentanyl. Se il mito del "se vuoi, puoi" crolla, sorge la domanda: perché alcuni possono e io no? La colpa deve essere di qualcuno: i ricchi delle coste, i politici, gli immigrati. Qualcuno sta barando e mi sta rubando il futuro.
Gli "inquinatori di pozzi" e gli oligarchi. In questo clima di risentimento si sono inseriti innumerevoli attori – opinionisti, influencer, ideologi – che per fama, soldi o convinzione hanno attivamente lavorato per dividere il paese, infiammando il dibattito su ogni tema: Covid, vaccini, elezioni, guerre.
A questi si aggiungono i cosiddetti "cavalieri dell'apocalisse": oligarchi come Peter Thiel ed Elon Musk, che hanno investito miliardi per sostenere figure divisive come Trump e per inquinare il dibattito pubblico. Molti di loro, specialmente Thiel, coltivano ossessioni ideologiche come l'accelerazionismo e il transumanesimo: teorie secondo cui è necessario accelerare i processi distruttivi della società per arrivare al collasso e poter "trascendere" l'umanità, raggiungendo una sintesi uomo-macchina per poi conquistare l'universo. Un'ideologia estrema che, unita a un potere economico e tecnologico smisurato, contribuisce a destabilizzare l'ordine esistente. È vero anche – almeno per noi europei che tra mille difetti, non siamo digiuni di cultura – che parlare di Stati Uniti è sottintendere anche stravaganza e follia elevata alla massima potenza, quindi nulla che possa sorprendere più di tanto!
Donald Trump: sintomo e catalizzatore della rottura
Donald Trump non è la causa di questa decomposizione, ma ne è il sintomo più evidente e, al contempo, il suo più potente acceleratore. La sua presidenza ha introdotto un concetto di rottura mai visto prima: l'idea che nel paese esista un "noi" e un "loro", e che "loro" non siano semplici avversari, ma nemici anti-americani. Questi nemici, nel suo racconto, sono giudici, governatori, sindaci, intere città e stati. Il suo linguaggio è un attacco costante a qualcuno: la sinistra, gli immigrati, le minoranze. Ha minacciato di usare truppe federali contro le città democratiche e di definire ogni oppositore un "terrorista".
Questa postura è l'esatto contrario di quella di ogni presidente che lo ha preceduto. George H.W. Bush parlava di una "nazione più buona e gentile". Bill Clinton di "riparare la breccia" tra le parti. George W. Bush si definiva "uno che unisce, non uno che divide". Persino l'avversario repubblicano di Obama, John McCain, lo difese pubblicamente dall'accusa di essere "arabo", perché il principio fondamentale era sempre stato quello di preservare, almeno a parole, l'unità nazionale.
Trump fa l'opposto: ogni occasione è buona per tracciare una linea tra i "veri americani" e i traditori. La sua reazione all'omicidio di Kirk è stata emblematica: invece di parlare di unità e riconciliazione, lui e i suoi seguaci hanno parlato di vendetta, cementando ulteriormente l'odio e la divisione.
Conclusione: verso un nuovo conflitto?
Una guerra civile o un "divorzio nazionale" presuppone lo sgretolamento finale delle istituzioni, ovvero il momento in cui una parte significativa della popolazione non riconosce più l'autorità del potere costituito. Trump ha già dimostrato di voler minare queste fondamenta, incitando la folla verso il Campidoglio nel 2021. Oggi, rispetto ad allora, ha più esperienza e alleati potenti, inclusi oligarchi con risorse quasi illimitate. Sebbene le istituzioni (come la Corte Suprema) mostrino ancora una certa capacità di resistenza, la domanda rimane: cosa succederà se Trump, o una figura simile, dovesse spingere il paese oltre il punto di non ritorno? Probabilmente nulla, perché gli USA hanno anticorpi potenti. Tuttavia non si può ignorare che stiamo assistendo a una nuova era americana, un'era di polarizzazione e violenza politica. Se questi sono gli "anni di piombo" degli Stati Uniti, c'è da tenersi forte, ma “domani è un altro giorno”. Determinante è che i “satelliti” statunitensi, come l’Europa, non cadano nel probabile tranello, facendosi trascinare su un terreno nel quale “solo” gli americani dispongono di antidoti. Non c’è da patteggiare o schierarsi, c’è da sperare che questo clima trovi in fretta la parola fine, perché…se la più grande potenza del mondo si disfa, di noi rimarranno solo tracce per archeologi.