Israele prosegue la sua operazione su Gaza, incurante delle deboli obiezioni della comunità internazionale e delle proteste popolari che, purtroppo, spesso risultano inefficaci a causa di informazioni distorte, ideologie superficiali e chiari intenti strumentali. Sebbene paesi come Francia, Regno Unito e Spagna abbiano riconosciuto lo Stato di Palestina, pare non esserci alcuna determinazione politica di far rispettare il diritto internazionale.
L’impegno risulta solo un sussulto ma non c’è alcuna vera determinazione né per spingere Israele verso soluzioni più pacifiche, né per attuare quelle misure “politiche” già previste, come l'arresto dei responsabili – Netanyahu, Ben Gvir o Gallant.
Le ragioni di questo scenario e le motivazioni geopolitiche che permettono a Israele di agire indisturbato su Gaza, Iran e Libano non sono poi così difficili da capire. Gli Stati Uniti, con un consenso bipartisan piuttosto marcato, continuano a fornire armi e appoggio politico a Netanyahu, mentre l’Europa resta a guardare, impotente, priva di una vera voce in capitolo sulla scena politica globale.
Indipendentemente dalle idee politiche, è evidente che ciò che sta accadendo a Gaza non è proprio “la prassi”. Dopo l’attacco del 7 ottobre 2023, l’esercito israeliano ha risposto con grande forza e decisione: ha assediato una città, ha affamato migliaia di persone e ha bombardato interi quartieri.
Il numero esatto dei morti è discusso. Si parla di oltre 65.000, ma già l’anno scorso la rivista scientifica The Lancet suggeriva che la cifra reale potesse essere molto più alta, forse superando i 100.000.
GIOCHI DI POTERE O IMPUNIBILITÀ PER ISRAELE?
Dobbiamo capire, con lucidità e senza farci travolgere dalle emozioni, che il diritto internazionale conta davvero solo se fa comodo alle grandi potenze, come gli Stati Uniti. Altrimenti, ha ben poco peso. Per questo motivo, anche se la Corte Penale Internazionale ha emesso mandati di arresto internazionali, nessuno andrà mai a Tel Aviv per arrestare i responsabili. Questa situazione si riflette nella politica mondiale grazie al diritto di veto degli Stati Uniti nel Consiglio di Sicurezza.
In più, c'è un forte sostegno diplomatico, forniture di armi (specialmente da Stati Uniti e Germania) e accordi di collaborazione in vari settori, dalla difesa alla ricerca, sia con gli americani che con l’Unione Europea. Israele, quindi, sa di poter agire come crede, perché, almeno sulla carta, è un alleato.
Tuttavia, Israele non ha mai appoggiato le nostre sanzioni contro la Russia, continua a scambiare tecnologie avanzate con la Cina e si impegna attivamente per destabilizzare il Medio Oriente. Diciamocelo chiaramente: destabilizzare una regione così vicina all’Europa e, in particolare, all’Italia, rappresenta un danno geopolitico diretto per tutti noi.
Qualcuno potrebbe obiettare che l’Unione Europea ha imposto sanzioni importanti a Israele. Vero, ma le sanzioni vere sono ben diverse da quelle proposte. Vediamo meglio: il Regno Unito ha solo rallentato un accordo commerciale e ha applicato qualche sanzione ai coloni. La diplomatica Kaja Kallas ha parlato di piani per ridurre i legami commerciali con Israele e punire alcuni funzionari.
In pratica, l’Europa vorrebbe applicare delle tasse (dazi) solo sul 37% dei prodotti che importiamo da Israele. Considerando che siamo il loro principale partner commerciale e che nel 2024 le importazioni totali valevano 16 miliardi, applicare dazi solo su quel 37% è, come ha detto l’economista Alessandro Volpi, «una buffonata».
Le sanzioni UE proposte sono davvero ridicole in relazione all’impatto commerciale reale. Esse prevedono la sospensione dell’accordo di libero scambio del 2000 tra Unione Europea e Israele, ma soltanto per il 37% del volume degli scambi, perché il resto rimane soggetto alle norme della World Trade Organization.
Ma anche per quel 37% interessato dalla sospensione, l’unico effetto sarà quello di applicare alle merci israeliane i dazi ordinari dell’UE. Quindi nessuna sospensione delle importazioni, neppure di quelle di armi. Per effetto delle sanzioni, le imprese israeliane dovranno sostenere una spesa per i dazi di poco più di 220 milioni di euro: un balzello inavvertibile, che peraltro è molto probabile non verrà neppure adottato perché serve l’approvazione all’unanimità e la Germania ha già fatto sapere di non essere d’accordo.
Inoltre, alcuni funzionari dell’UE stanno pensando di tagliare 14 milioni di euro di aiuti a vari progetti israeliani, ma vogliono mantenere i fondi per il memoriale dell’Olocausto Yad Vashem e per iniziative di pace. Anche qui, si tratta di “briciole” e, nel frattempo, i paesi non riescono a mettersi d’accordo.
Alcuni paesi hanno riconosciuto la Palestina, ma ai palestinesi, in questo momento, non servono “formalità” che sembrano distanti dalle loro vere necessità. La preoccupazione maggiore, oltre a quella di fare il meno possibile per non creare problemi, sembra essere quella del cancelliere tedesco Friedrich Merz, allarmato dall’aumento dell’antisemitismo verso gli ebrei in Europa.
La storia ci ha insegnato che le sanzioni possono davvero mettere in crisi un paese, come è successo in Sudafrica. Eppure, per Israele non ci saranno vere sanzioni, semplicemente perché non c’è un interesse politico in tal senso. Pochi si chiederanno perché tutte le squadre sportive russe sono state escluse dalle competizioni mondiali, mentre quelle israeliane no! Certo, si potrebbe discutere se sia giusto punire degli atleti che magari non c’entrano nulla con la guerra, ma resta il fatto che è una scelta politica.
È un modo per dire a un paese che sta esagerando e che non può più far parte della comunità internazionale. Ma, nel caso di Israele, questa volontà politica internazionale manca – almeno per ora.
Israele è troppo importante strategicamente per americani ed europei. Solo in Italia abbiamo collaborazioni strettissime, dallo sviluppo di armi alla sicurezza informatica. Gli Stati Uniti hanno affidato a Israele il controllo del Medio Oriente, finanziandoli con miliardi in armamenti e proteggendo i loro cieli.
Hanno il sistema di difesa Iron Dome, ma senza gli intercettori americani non sarebbe servito a molto. Quindi, sono alleati sulla carta, ma le loro azioni ci mettono a rischio diretto. Destabilizzare il Medio Oriente è un pericolo concreto per l’Europa, un rischio che potrebbe spingere gruppi musulmani a sfogare le loro frustrazioni proprio contro i paesi che finora li hanno tollerati, forse troppo.
Ci aspetteremmo che Stati Uniti ed Europa chiedessero subito un cessate il fuoco. Ma il problema non è solo politico o strategico, è anche culturale. Negli USA, pochissimi osano criticare Israele: sia repubblicani che democratici, se puntano a una carriera politica di alto livello, non si sognano di farlo.
Questo perché i centri di potere politico, economico e mediatico sono molto influenzati da gruppi filo-israeliani di ogni tipo (evangelici, neoconservatori, liberali). Tutti presentano la stessa idea: Israele come baluardo del mondo occidentale, difensore dei valori di democrazia e libertà, costantemente minacciati dalla violenza dell’Islam e del mondo arabo.
A Washington, questa guerra è considerata un dettaglio fastidioso, ma sia per i democratici che per i repubblicani, in fondo, va bene così. Mentre gli americani si concentrano sull’Asia, lasciano a Israele il “lavoro sporco”.
Prima del 7 ottobre, l’Iran, nemico principale dell’Occidente, nonostante isolato e sanzionato, era tornato forte: si era riavvicinato all’Arabia Saudita, era in sintonia con l’asse sciita di resistenza e sempre più vicino a Russia e Cina, con accordi economici e strategici.
Questa situazione minacciava la capacità americana di limitare l’influenza iraniana e attraverso di essa l’avvicinamento di Mosca e Pechino in Medio Oriente. Per gli americani, un Medio Oriente stabile ma aperto a influenze esterne è inaccettabile. Preferiscono vederlo frammentato e in guerra, purché i loro alleati mantengano una posizione di forza.
Per questo, va benissimo che Netanyahu agisca come vuole, che porti la guerra in Libano, che colpisca Hezbollah, che destabilizzi la popolazione con attacchi terroristici o che bombardi l’Iran.
Allo stesso tempo, Israele mette pressione alla Siria, mantiene una forza di deterrenza contro gli Houthi nel Mar Rosso e crea una situazione di conflitto e instabilità costante tutt’intorno. Anche se destabilizza le regioni più fragili del Medio Oriente, così facendo combatte il rischio di un’espansione iraniana (e di conseguenza cinese e russa) in zone strategiche.
Quindi, gli americani, spinti da forti pressioni interne, trasformano tutto in una questione geopolitica: l’Iran è un veicolo per l’influenza cinese in Medio Oriente, e piuttosto che inviare i propri soldati, preferiscono lasciare che siano gli israeliani a fare il lavoro.
L’Europa, anche se volesse fare qualcosa, non avrebbe un peso significativo, al massimo può limitarsi a indignarsi. La verità è che, a livello geopolitico, l’area si trova in un vicolo cieco, e non è Israele ad aver creato questa situazione, ma la superficialità, la disattenzione, il populismo e l’incompetenza di una politica che ha ignorato secoli di storia e si è fidata troppo, dando le spalle al pericolo.
Ora è difficile prendersela con chi, invece, non ha mai abbassato la guardia.
Giusto o sbagliato? Lo scopriremo solo alla fine. Tuttavia, dopo aver goduto per decenni, è inutile criticare e insultare dal divano chi si impegna a rimettere ordine, per rendere di nuovo utilizzabile quel tavolo diplomatico dove tutti, prima o poi, avranno bisogno di sedersi ancora.