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DANNI, NON DIRITTI: L'INUTILITÀ DELLO SCONTRO A TUTTI I COSTI

 
DANNI, NON DIRITTI: L'INUTILITÀ DELLO SCONTRO A TUTTI I COSTI
di Luca Lippi

Un nuovo sciopero generale segna la giornata odierna, portando con sé le consuete polemiche sulla sua natura ideologica e il rischio concreto di incidenti. Una dinamica che si ripete ciclicamente e che interroga sull'attuale valore di queste mobilitazioni: sembrano ormai esercizi di stile di una classe dirigente alla ricerca di un ruolo, piuttosto che vere leve di cambiamento sociale.
Per decenni, lo sciopero generale è stato l’arma più potente del mondo del lavoro proprio perché era un evento eccezionale e unitario: serviva a fermare il Paese per costringere le parti a sedersi e trovare un accordo. Oggi, invece, assistiamo spesso a una ritualità che finisce di indebolire questo strumento. Quando la protesta diventa un’abitudine o viene portata avanti solo da una parte dei sindacati, perde la sua funzione strategica e finisce per creare divisioni tra i lavoratori e disagi ai cittadini, senza offrire una soluzione pratica ai problemi sul tavolo, soprattutto perché mancano le competenze, le capacità e, soprattutto, l’identità di un ruolo.

LA CENTRALITÀ DEL CONTRATTO E DEI SALARI

Il cuore dell'attività sindacale non dovrebbe essere la piazza in sé, ma la capacità di costruire accordi vantaggiosi. La vera sfida moderna, che distingue un sindacato di protesta da uno di proposta, riguarda il modo in cui si decide di aumentare gli stipendi. Dire "no" è semplice, ma sedersi a un tavolo e firmare un contratto collettivo richiede la fatica del compromesso e la capacità di visione.
Qui entra in gioco un concetto fondamentale spesso trascurato: il legame tra salari e produttività. Per aumentare in modo consistente e duraturo le buste paga, non basta chiedere cifre più alte per decreto. È necessario creare meccanismi, già diffusi in molte economie occidentali, dove il salario cresce se l’azienda funziona meglio. Si tratta di premiare il merito e promuovere la partecipazione attiva dei dipendenti alla vita dell'impresa. Se l'azienda diventa più redditizia grazie al lavoro dei suoi dipendenti, quella ricchezza aggiuntiva deve essere ridistribuita immediatamente ai lavoratori. È un cambio di mentalità: l'azienda non è più un nemico da combattere a prescindere, ma il luogo dove si crea la ricchezza da spartire.

DUE MODI DIVERSI DI DIFENDERE I LAVORATORI

Oggi in Italia convivono due visioni molto diverse. Da una parte c'è un approccio che tende al conflitto permanente, che vede nel governo o nelle imprese una controparte ostile con cui è difficile dialogare, preferendo spesso la mobilitazione ideologica ai risultati parziali. Dall'altra c'è un sindacalismo riformista, pragmatico, che ha un solo obiettivo: portare a casa risultati concreti. Questo secondo approccio dialoga con qualsiasi governo sia in carica, senza pregiudizi politici, e punta a ottenere benefici tangibili subito, come ad esempio la detassazione degli aumenti contrattuali o il miglioramento del welfare aziendale.
Rifiutare questi passi avanti in nome di una battaglia di principio rischia di isolare il sindacato dalla realtà e dai bisogni immediati delle famiglie, che non possono aspettare la realizzazione di un mondo ideale per pagare le spese di fine mese.

UN NUOVO PATTO SOCIALE

La strada più utile per il Paese, in questo scenario economico complesso, non è la resistenza a oltranza, ma la costruzione di un vero Patto Sociale. Si tratta di un’alleanza strategica tra governo, imprese e sindacati che condividano la stessa direzione. L'obiettivo deve essere rendere le imprese italiane più competitive e innovative, perché solo un sistema produttivo forte può garantire nuovi diritti e stipendi più alti.
Il sindacato del futuro deve avere il coraggio di "sporcarsi le mani" con la gestione dei processi economici, spingendo per investimenti e innovazione, piuttosto che limitarsi a fare da argine. La protesta fa rumore ed è talvolta necessaria, ma alla fine sono gli accordi firmati e la crescita economica a garantire il benessere dei lavoratori.

IL TAFAZZISMO A OLTRANZA

Per comprendere appieno perché la produttività e la crescita economica sono indispensabili, bisogna guardare con onestità a come si regge il sistema Italia. L'architettura del nostro Paese si fonda su tre grandi pilastri, strettamente interconnessi tra loro, che definiscono i flussi di denaro pubblico.
Il primo pilastro è quello del pubblico impiego, i garantiti. È la macchina dello Stato, che garantisce i servizi essenziali e la sicurezza, con un costo che si aggira intorno ai 200-201 miliardi di euro per l'anno 2025, secondo le stime della Corte dei Conti. Il secondo pilastro è quello del welfare e dell'assistenza, gli assistiti: include i pensionati, le prestazioni di reversibilità, gli invalidi e tutte le forme di sostegno sociale costituzionalmente previste e doverose. Questa voce assorbe circa — stime per il 2024/2025 — intorno ai 670 miliardi di euro, arrivando a circa il 60 per cento della spesa pubblica totale.
Il terzo pilastro è rappresentato dal settore produttivo: le PMI, i commercianti, i professionisti, le partite IVA e le grandi aziende private. È fondamentale capire che, in una logica puramente economica, è questo terzo pilastro a sorreggere gli altri due. Lo Stato, infatti, può ricorrere al debito pubblico solo fino a un certo punto; oltre quel limite, senza risorse fresche, il sistema rischia il collasso. Sono dunque le tasse pagate sulla ricchezza prodotta dal mercato privato a finanziare la sanità, le pensioni, gli stipendi pubblici e ogni forma di assistenza. Senza la base imponibile generata da chi rischia sul mercato, non ci sarebbero le risorse per pagare tutto il resto.
Spesso si genera un equivoco nel dibattito pubblico riguardo al pagamento delle tasse. È tecnicamente vero che anche i dipendenti pubblici pagano imposte, vedendosele trattenute in busta paga. Tuttavia, dal punto di vista macroeconomico, c'è una differenza sostanziale. Le tasse del settore privato sono risorse nuove che entrano nelle casse dello Stato; quelle trattenute a un dipendente pubblico sono, in estrema sintesi, una partita di giro: lo Stato eroga un lordo (che deriva dalle tasse dei privati) e ne trattiene una parte.
Non si tratta di sminuire il lavoro fondamentale di medici, insegnanti o forze dell'ordine, ma di riconoscere la realtà dei flussi finanziari. Le tutele di cui gode il pubblico impiego e parte del lavoro dipendente - come ferie garantite, malattia retribuita, permessi e stabilità del posto - sono conquiste di civiltà che, però, hanno un costo economico preciso. Quel costo viene coperto quotidianamente dallo sforzo della parte produttiva del Paese, spesso composta da autonomi e piccole imprese che non godono delle stesse garanzie e che, se si fermano, non vedono entrare un euro. Riconoscere questo non significa creare divisioni, ma capire che senza tutelare chi produce ricchezza, finiscono i soldi per garantire i diritti di tutti.
Lo sciopero generale, specie se non ha alcun senso, danneggia soprattutto l’unica parte produttiva del Paese, quella che garantisce la sopravvivenza ai garantiti e agli assistiti che scioperano dopo il caffè e fino a quando non devono mettere le gambe sotto il tavolo da pranzo.