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L’anima smarrita dell’economia europea: cronaca di un declino annunciato

 
L’anima smarrita dell’economia europea: cronaca di un declino annunciato
Luca Lippi

Un tempo motore pulsante di crescita e innovazione, l'economia italiana ed europea sembra aver perso la sua rotta. Il modello che ha garantito benessere per decenni, basato sulla forza manifatturiera e sull'export, scricchiola sotto i colpi di un mondo radicalmente cambiato. Dalle firme in stanze chiuse che hanno sancito il "divorzio" tra Tesoro e Banca d'Italia, alle privatizzazioni che hanno smantellato l'industria di Stato, fino alle recenti crisi energetiche, la storia economica del "Bel Paese" e del Vecchio Continente è un racconto di tradimenti silenziosi e scelte strategiche che hanno minato le fondamenta del futuro.

L'allarme, lanciato recentemente anche da una figura autorevole come Mario Draghi, parla di una "sfida esistenziale" e di una possibile "lenta agonia". Ma per comprendere la profondità della malattia odierna, è necessario un passo indietro, a quando la "magia" funzionava.

Il miracolo italiano e il patto infranto

Nell'Italia della Prima Repubblica, reduce dalle ceneri della guerra, le fabbriche erano il cuore di un Paese che scommetteva seriamente sulla crescita. Automobili, tessuti, elettronica: il segreto del "miracolo economico" era produrre e vendere al mondo intero. Un posto in fabbrica non era solo un impiego, ma un passaporto per la classe media, un futuro di stabilità e benessere. La manifattura trainava lo sviluppo, spingendo i governi a investire in infrastrutture e servizi, trasformando una nazione povera in una potenza industriale.

Questo modello, che vedeva lo Stato come motore di crescita anche a costo di un deficit di bilancio, si basava su un equilibrio preciso. Fino al 1981, il Ministero del Tesoro emetteva titoli di debito a tassi contenuti, che la Banca d'Italia acquistava, stampando la moneta necessaria. Un meccanismo che ha permesso al Paese di diventare la quarta potenza manifatturiera mondiale, tanto da destare le preoccupazioni dei vicini europei.

Il “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia

La svolta, mascherata da mossa tecnica, arriva nel febbraio del 1981 con il "divorzio" tra Tesoro e Banca d'Italia. Presentato come un argine alla corruzione politica, questo passaggio cruciale ha sottratto allo Stato il controllo sui tassi di interesse del proprio debito. Da quel momento, a decidere non sarebbe più stata la politica, nel bene e nel male al servizio dei cittadini, ma i mercati finanziari, mossi da logiche di profitto. Il debito pubblico italiano, allora sotto il 60 per cento del PIL, ha iniziato una crescita inarrestabile, non a causa di una spesa fuori controllo, ma per l'esplosione degli interessi da pagare.

Le privatizzazioni degli anni ’90 e la perdita della sovranità economica

Gli anni '90, con la caduta del Muro di Berlino e la riunificazione tedesca, segnano un'altra tappa fondamentale. L'accordo per la creazione della moneta unica, l'euro, avrebbe richiesto il sacrificio del marco tedesco, ma anche l'indebolimento del suo concorrente più agile e temibile: l'Italia. Inizia così la stagione delle grandi privatizzazioni.

Sotto la regia di figure come l'allora Direttore Generale del Tesoro, Mario Draghi, gioielli industriali italiani – dall'energia alle telecomunicazioni, da Telecom e Autostrade a Eni ed Enel – vengono ceduti a prezzi stracciati a multinazionali straniere. L'obiettivo dichiarato era fare cassa e modernizzare il Paese, ma il risultato fu il passaggio del controllo strategico del futuro industriale italiano in mani estere, il cui unico interesse era il profitto a breve termine, non certo il benessere collettivo.

La sventura dell’euro

L'adozione dell'euro ha rappresentato il culmine di questo processo di "disarmo economico volontario". L'Italia, come altre nazioni, ha ceduto la propria sovranità monetaria alla Banca Centrale Europea (BCE), un'entità sovranazionale, e ha visto le proprie politiche fiscali imbrigliate da rigide regole di austerità. Privata della possibilità di stampare moneta per acquistare i propri titoli di Stato, l'Italia si è trovata in balia degli speculatori finanziari, i cosiddetti "bond vigilantes", che hanno innescato la crisi del debito sovrano.

La BCE, per quasi tre anni, dal 2009 al 2012, è rimasta a guardare, rifiutandosi di agire come prestatore di ultima istanza. Una scelta politica deliberata, che ha trasformato la BCE in un attore spietato al servizio degli interessi della finanza e delle nazioni più forti, come dimostra il drammatico caso della Grecia nel 2015.

L’energia come arma e il paradosso della transizione verde

A completare il quadro, è arrivato il colpo di grazia sul fronte energetico. Con la guerra in Ucraina e le sanzioni alla Russia, l'Europa ha perso l'accesso al gas a basso costo, linfa vitale per le sue industrie. I prezzi del gas naturale sono schizzati a livelli da tre a cinque volte superiori a quelli statunitensi, e il costo dell'elettricità per le imprese è raddoppiato o triplicato rispetto a Cina e America.

Un paradosso diabolico si nasconde nel sistema europeo del "prezzo marginale": il costo dell'elettricità viene fissato in base alla fonte più costosa necessaria a soddisfare la domanda, ovvero il gas. Così, anche in presenza di un'abbondante produzione da fonti rinnovabili a basso costo, il prezzo finale per tutti è determinato dal gas.

La transizione verde, nata per affrancarsi dalla dipendenza russa, rischia così di trasformarsi in un'arma a doppio taglio. Si chiudono acciaierie e industrie chimiche per raggiungere obiettivi climatici, per poi importare gli stessi prodotti da Paesi dove vengono realizzati in modo molto più inquinante. Non una decarbonizzazione, ma una deindustrializzazione mascherata da politica ambientale, che sposta l'inquinamento e cambia solo il regime autoritario da cui si dipende: dalla Russia per il gas alla Cina per i pannelli solari.

Quale futuro per l’Italia e per l’Europa?

La svendita dell'Italia non è solo una questione di spread o di PIL, ma la perdita della capacità di immaginare un futuro diverso. Il vecchio modello economico, basato su energia a buon mercato ed esportazioni di massa, è morto. La prosperità non tornerà inseguendo vecchie chimere, ma attraverso una profonda ristrutturazione, puntando sulla domanda interna e sui settori d'eccellenza.

La vera forza dell'Italia non è mai stata nella produzione di massa a basso costo, ma in nicchie ad altissimo valore aggiunto, dove compete e domina a livello globale: dalla moda al lusso (Luxottica, Armani, Ferrari), dall'agroalimentare (Ferrero, Barilla) alla farmaceutica. Settori che richiedono un capitale umano super qualificato e un know-how che non si può improvvisare.

La sfida, per l'Italia e per l'intera Europa, non è evitare di diventare il più bel museo a cielo aperto del mondo, ma dimostrare di essere ancora un laboratorio del futuro e dell'eccellenza. Riconquistare la consapevolezza del proprio valore e delle proprie potenzialità è il primo, imprescindibile passo per invertire la rotta, prima che del glorioso passato industriale non rimanga che una nota a piè di pagina nei libri di storia.

Ovviamente, se continuiamo a pagare salari che non coprono i consumi e importiamo povertà invece di forza lavoro qualificabile, ma soprattutto, se continuiamo ad affidarci alla professionalità di chi ci ha portato a questo punto, allora l’Italia è destinata a perire sotto il controllo di un’Europa che non è mai nata.