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Un farmaco già noto apre una nuova via per combattere la retinite pigmentosa

 
Un farmaco già noto apre una nuova via per combattere la retinite pigmentosa
di Sofia Diletta Rodinò

Lo studio del Cnr-In di Pisa mostra come il desametasone possa rallentare la degenerazione dei coni e preservare la vista: una speranza concreta per una patologia che oggi non ha cura.

Quando la ricerca sceglie il coraggio dell’intuizione, anche un farmaco noto da decenni può trasformarsi in una nuova possibilità terapeutica. È quanto emerge da un recente studio dell’Istituto di Neuroscienze del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-In) di Pisa, pubblicato sulla rivista internazionale Progress in Retinal and Eye Research, che apre prospettive inattese nella lotta contro la retinite pigmentosa, una delle malattie genetiche oculari più diffuse e invalidanti.

La patologia è rara, ereditaria e progressiva: inizia con il danneggiamento dei bastoncelli, le cellule che permettono la visione notturna, e avanza fino a colpire anche i coni, fondamentali per la visione diurna, la lettura, il riconoscimento dei volti e la percezione dei colori. Quando i coni degenerano, la qualità della vita si restringe drammaticamente: i pazienti perdono autonomia, mobilità e capacità di interazione con l’ambiente.

Per questo la scoperta del gruppo pisano, coordinato dalla ricercatrice Enrica Strettoi, assume un peso particolare. La ricerca ha infatti puntato su un’idea tanto semplice quanto rivoluzionaria: riutilizzare un farmaco antinfiammatorio già ampiamente conosciuto, il desametasone, per contrastare i processi degenerativi che colpiscono la retina.

Un nuovo approccio: controllare l’infiammazione per salvare i fotorecettori

Negli ultimi anni la comunità scientifica ha compiuto enormi progressi nel comprendere le cause genetiche della retinite pigmentosa, avviando studi di terapia genica e approcci personalizzati. Tuttavia, come ricorda Strettoi, non esiste ancora una cura valida per tutti i pazienti, principalmente a causa dell’alta variabilità delle mutazioni che causano la malattia.

Il merito dello studio del Cnr-In è quello di spostare il focus su un meccanismo comune alla progressione della patologia: l’infiammazione cronica scatenata dalle cellule immunitarie della retina, in particolare microglia e macrofagi. Queste cellule, attivate dal danno iniziale ai bastoncelli, finiscono per contribuire alla perdita dei coni, accelerando la degenerazione visiva.

Da qui l’intuizione: se l’infiammazione è uno dei motori della perdita della vista, può un antinfiammatorio già noto rallentare questo processo?

Desametasone per via intraoculare: risultati promettenti

Il team pisano ha scelto di testare il desametasone, un glucocorticoide largamente utilizzato in oculistica, somministrandolo per via intraoculare in modelli preclinici.

L’esito è stato sorprendente:

  • i coni risultano più protetti,

  • l’epitelio pigmentato retinico — fondamentale per la sopravvivenza delle cellule visive — mostra minori segni di danneggiamento,

  • i processi infiammatori vengono drasticamente attenuati.

In altre parole, il farmaco riesce a preservare più a lungo la funzionalità della retina, rallentando in modo significativo la perdita della vista.

Non si tratta di un dettaglio tecnico, ma di un risultato che potrebbe cambiare la gestione clinica della patologia: i glucocorticoidi sono infatti già approvati, disponibili, ben conosciuti e facili da somministrare.

Una speranza concreta per i pazienti

Nella sua dichiarazione, Strettoi sintetizza bene il valore della scoperta: “I risultati positivi ottenuti suggeriscono che i glucocorticoidi, farmaci già approvati e ampiamente utilizzati in oculistica, potrebbero rappresentare una nuova opportunità terapeutica per la Retinite Pigmentosa, indipendentemente dalla mutazione genetica che la causa”.

Questa prospettiva offre due vantaggi fondamentali:

  1. una possibile terapia trasversale, valida per tutti i pazienti, qualunque sia la mutazione genetica;

  2. una ricaduta clinica immediata, grazie all’impiego di farmaci già disponibili e sicuri.

Per una malattia definita “orfana” — dove mancano cure universalmente efficaci e dove i pazienti attendono spesso per anni una diagnosi certa — si tratta di un potenziale cambio di paradigma.

Un lavoro lungo cinque anni

Lo studio, che ha richiesto cinque anni di ricerca, è stato pubblicato sotto forma di una lunga review contenente anche dati inediti, a conferma della solidità e dell’ampiezza dell’indagine scientifica.

A sostenere il progetto sono stati diversi enti e fondazioni:

  • Fondazione Velux,

  • Allergan/AbbVie,

  • Fondazione Rosa Pristina,

  • PNRR Tuscany Health Ecosystem.

Un network di collaborazione che dimostra quanto la ricerca italiana in neuroscienze e oftalmologia sia oggi capace di generare risultati innovativi e competitivi a livello internazionale.

Una nuova strada possibile

La retinite pigmentosa rimane una patologia complessa, ma lo studio del Cnr-In di Pisa suggerisce che anche un farmaco noto può aprire nuove strade terapeutiche, in attesa che le terapie geniche raggiungano una piena maturità clinica.
Non una cura definitiva, ma un passo avanti significativo: la possibilità di rallentare il declino visivo, preservando più a lungo la capacità di leggere, muoversi, riconoscere i volti — in una parola, vivere.

È forse questo il risultato più prezioso: trasformare una speranza in una prospettiva concreta per migliaia di pazienti.