Dubbi giuridici e riflessioni sulla nuova norma che punisce l’omicidio di una donna “in quanto donna” con la pena massima
Di Diego Minuti
Una legge che incide nella sfera della giustizia dovrebbe avere come genesi l'esigenza universale di un ordinamento di tutelarsi, non essere generata da un singolo caso o da più casi dello stesso profilo, quindi non considerandone uno specifico.
L'adozione della nuova legge che punisce l'uccisione di una donna, "femminicidio", per motivi di genere con la pena dell'ergastolo, sembra contraddire questo che è un caposaldo di tutti gli Stati democratici.
L’ergastolo, che oggi nella pratica – per effetto della legislazione premiale, "figlia" della legge Gozzini – non si applica più se non nei casi più estremi (mafia, stragi), viene ora evocato come pena ordinaria.
L'adozione di una nuova legge dovrebbe muoversi nell'ottica di definire un quadro generale, mentre quella sul femminicidio appare come risposta emotiva dell’opinione pubblica a episodi tragici, cavalcata politicamente dalla classe dirigente.
Secondo la nuova norma, chi uccide una donna "in quanto donna, o comunque per motivi fondati sul genere" deve essere condannato all'ergastolo, il massimo della pena, potenzialmente mitigabile dalle attenuanti. Le aggravanti, in questo caso, non incidono sul "fine pena: mai".
Lo stesso principio si applica a vittime transgender che abbiano intrapreso o concluso un percorso di transizione.
Pur accettando lo spirito e le motivazioni della nuova legge (approvata a larghissima maggioranza), è legittimo sollevare alcune considerazioni di principio.
Nel nostro ordinamento esistono già articoli del codice penale che puniscono l’omicidio senza distinguere il genere della vittima.
Introdurre oggi una discriminante di genere potrebbe implicare che, a parità di condotta, due persone siano giudicate in modo diverso in base al genere della vittima.
Ci spieghiamo: quando si uccide, si spegne una vita, indipendentemente dal fatto che essa appartenga a un uomo, a una donna, o a una persona non binaria.
Affermare che uccidere una donna sia un delitto più grave rispetto all’omicidio di un uomo introduce una discriminazione processuale: si rischia che una donna che uccide un uomo venga trattata con maggiore indulgenza rispetto a un caso inverso, anche in presenza di modalità più efferate.
Le leggi già esistevano, ma la politica ha preferito intervenire sull’onda dell’emotività, anziché con l’equilibrio che dovrebbe contraddistinguere l’attività legislativa.
Sia chiaro: l’alto numero di donne uccise – spesso per motivi “banali” come la fine di una relazione, o più dolorosi come la contesa per l’affidamento dei figli – non può essere ridotto a una fredda statistica, ma va letto come effetto storico e sistemico della marginalizzazione della donna nella nostra società: dalla famiglia alle istituzioni, dall’economia alla sanità.
Lo Stato avrebbe dovuto agire prima, con misure di prevenzione strutturali, a partire dall’educazione al rispetto e all’eguaglianza, non solo con una legge punitiva a posteriori.
Non lo ha fatto, e infatti gli omicidi continuano, come riportano le cronache quotidiane.
Ora, in attesa che la prima procura contesti l’accusa di femminicidio in un caso concreto, sarà interessante osservare come gli avvocati difensori imposteranno le strategie per evitare la condanna all’ergastolo. Ricordiamo che questa sarà possibile solo se si dimostra, senza dubbio, che il movente è legato al genere della vittima.
Quindi, se un uomo uccide la moglie per esasperazione, gelosia o altri motivi non strettamente legati al genere, scatta comunque automaticamente l'ergastolo?
Aspettiamo di vedere come evolveranno i primi casi giudiziari, ma resta un dubbio sostanziale: se uno Stato legifera sull’onda dell’indignazione, per tamponare l’emergenza sociale, non dimostra forza, ma l’incapacità di prevenire.