La vicenda che arriva dalla Finlandia non è tanto una storia di indignazione
quanto l’ennesima dimostrazione di come l’ironia maldestra sui social possa
accendere riflettori che, forse, andrebbero puntati altrove. A far discutere
non è soltanto la foto in cui Miss Finlandia 2025, Sarah Dzafce, imita con
leggerezza gli “occhi asiatici”, gesto poi ripreso con superficialità anche da
alcuni parlamentari del Paese, quanto il contesto stesso in cui tutto questo
accade, un concorso di bellezza. Un meccanismo che continua a funzionare come
se il mondo non fosse cambiato, come se il valore di una persona potesse ancora
essere riassunto in una fotografia, in un profilo armonioso, in una misura
corporea.
Alla vigilia del 2026, sorprende che ci sia
ancora chi gareggia per un titolo costruito su parametri estetici che nessuna
cultura può pretendere di universalizzare. La bellezza è mutevole, soggettiva,
figlia di epoche, mode, desideri sociali. Eppure si continua a premiarla come
se fosse una verità assoluta, come se esistesse davvero una donna “più bella”
delle altre. È un retaggio antico che sopravvive sotto la superficie patinata
dei palchi, una tradizione che si spaccia per valorizzazione femminile quando,
in realtà, non fa che ridurre la donna a oggetto di osservazione, valutazione,
classificazione.
L’ironia maldestra di una Miss che gioca con
tratti somatici altrui diventa così la punta dell’iceberg di un sistema che
continua a incoraggiare la performatività dell’apparire. Non ci si scandalizza
della leggerezza del gesto, ci si interroga sul terreno culturale che lo rende
possibile. Una giovane donna cresciuta all’interno di un modello che la
giudica, la misura, la compara, non può non interiorizzare l’idea che il corpo
sia un linguaggio, un mezzo, talvolta perfino un’arma. A quel punto la linea
tra innocenza e superficialità diventa sottilissima.
Nel 2025, la donna dovrebbe essere molto più
di un'immagine filtrata. Eppure i concorsi di bellezza continuano a riproporre
la stessa scenografia di sempre, la sfilata, le luci, il pubblico che osserva,
la giuria che decide, la corona che consacra. In quella ritualità impeccabile
c’è però tutto ciò da cui stiamo cercando di emanciparci. Perché mentre in
molti ambiti sociali si combatte per la parità, per il riconoscimento del
merito, per l’autodeterminazione, sul palco dei concorsi la persona scompare e
resta solo il corpo. E non c’è nulla che una corona possa fare per restituirle
profondità.
Il problema non è la bellezza. Il problema è
la gerarchia della bellezza. È l’idea che qualcuno, da qualche parte, possa
decidere quale sia la forma ideale dell’essere donna. È l’idea che una ragazza
debba competere non con la propria intelligenza, la propria sensibilità o il
proprio talento, ma con il suo aspetto, con qualcosa che non ha scelto e che
non può determinare fino in fondo. È un paradosso doloroso, soprattutto in un
tempo in cui l’oggettificazione femminile è ancora uno dei nodi più difficili
da sciogliere.
Quando si parla di empowerment, si continua a
ripetere che la donna deve essere libera. Ma come può esserlo se continua a
essere osservata come un prodotto? Come può esserlo se la sua visibilità
pubblica passa attraverso la sua aderenza a un modello estetico? Come può
esserlo se, ancora oggi, il primo parametro con cui viene valutata è
l’apparire? La cultura machista non è fatta solo di violenza o prevaricazione.
È fatta anche di simboli che rinnovano, giorno dopo giorno, l’idea che la donna
sia prima un corpo e poi tutto il resto.
Ed è proprio per questo che l’episodio
finlandese non è una semplice leggerezza social, ma il segnale di un sistema
che dovrebbe essere finalmente ripensato. Non serve abolire i concorsi, ma
trasformarli. Occorre svincolarli dalla logica della “più bella”, perché quel
titolo non dice nulla di una donna, della sua storia, delle sue capacità, della
sua visione. Occorre premiare i talenti, le idee, la capacità di contribuire
alla società. La bellezza può essere celebrata, certo, ma non può essere un
parametro di merito. L’essenza, non l’apparenza. Perché non esiste nulla di più
antico di una corona che definisce una donna. E non esiste nulla di più urgente
del riconoscere, una volta per tutte, che la bellezza non basta. E non serve. E
non rappresenta ciò che siamo davvero.