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Dalla Ferriera del Valdarno all'algoritmo: quando la Legge di Pareto smette di funzionare

 
Dalla Ferriera del Valdarno all'algoritmo: quando la Legge di Pareto smette di funzionare
Di Luigi Ricci

L'ingegnere tra il ferro e la teoria

La storia che voglio raccontare parte da un luogo che nessuno immagina quando si parla di teoria economica: le Ferriere del Valdarno, a San Giovanni, ad appena cento metri dall’Istituto Tecnico dove, più di un secolo dopo, mi sarei diplomato perito elettronico, prima di laurearmi in Statistica.
È la fine dell’Ottocento, e Vilfredo Pareto non è ancora il sociologo celebre, né l’economista da manuale. È un ingegnere. Un direttore di fabbrica. Uno che ha la responsabilità di un impianto reale, con veri operai, veri macchinari, veri rischi e veri conti da far tornare. Non sta studiando la società dall’alto: ci è immerso fino al collo.

Ed è proprio lì, tra altiforni e turni massacranti, che si accorge di una cosa che all’epoca nessuno chiamava ancora “legge”. Si accorge che non tutto conta allo stesso modo. Che in un sistema complesso come una ferriera, è sempre una piccola parte degli elementi a produrre la maggior parte dei risultati.
Pochi operai sono davvero indispensabili, pochi macchinari sono quelli che “se saltano, si ferma tutto”, poche decisioni dei dirigenti hanno effetti enormi su centinaia di persone. È un’osservazione pratica, non teorica: la fabbrica funziona perché pochi nodi reggono l’intero sistema.

Da questa intuizione nasce quella che più tardi verrà chiamata Legge dell’80/20. Non nasce nelle università. Nasce in una fabbrica toscana, da un ingegnere che osserva il mondo reale e si rende conto che la distribuzione del potere e degli effetti non è lineare, non è democratica, non è equilibrata. È asimmetrica. È sempre asimmetrica.

E bisogna dire che nella prima rivoluzione industriale questa asimmetria, per quanto brutale, aveva ancora una sua logica interna. La ricchezza era concentrata, sì, ma il capitalista industriale aveva bisogno degli operai. Senza di loro, la fabbrica non si muoveva. Il padrone della ferriera poteva essere ricco, ma non onnipotente: se gli operai incrociavano le braccia, il ferro non usciva, la produzione si fermava.
La concentrazione del potere era enorme, ma c’era una forma di interdipendenza.

E infatti, in quegli anni, nasce anche una risposta collettiva allo sfruttamento. I sindacati, le leghe operaie, la Camera del Lavoro. Marx ed Engels avevano già scritto il Manifesto del Partito Comunista; Leone XIII avrebbe pubblicato la Rerum Novarum pochi anni dopo, nel 1891.
C’era un linguaggio politico per dire “questo sistema è ingiusto”, e c’era anche un movimento sociale in grado di organizzarsi, scendere in piazza, lottare, ottenere leggi sul lavoro minorile, sull’orario, sul salario minimo. Era un mondo durissimo, ma politicamente leggibile. La fabbrica era visibile. Lo sfruttamento era visibile. Il conflitto era visibile.

Tutto questo però cambia completamente quando entriamo nella rivoluzione digitale.

Qui la parola “rivoluzione” non rende neanche l’idea. Perché non è solo una trasformazione tecnologica: è un cambio radicale della struttura della ricchezza, del lavoro, delle relazioni di potere.
La ricchezza non dipende più dal capitale fisico, come ai tempi di Pareto, ma dal capitale intangibile: dati, algoritmi, infrastrutture digitali, effetti di rete.
E il capitale intangibile, diversamente da una fabbrica, può crescere senza bisogno di assumere. Senza bisogno di braccia. Senza bisogno di operai.

Il risultato è che la vecchia asimmetria 80/20 si amplifica: diventa 90/10, in alcuni casi 95/5 o addirittura 99/1.
Pochissimi attori controllano quasi tutto. Pochissime aziende hanno il monopolio dell’AI. Una sola azienda, ASML, possiede la tecnologia per produrre i chip più avanzati.
E, soprattutto, si può generare ricchezza colossale senza dipendere quasi per nulla dal lavoro umano.

Il caso che più colpisce è quello di Tether, l’azienda che emette la stablecoin USDT. Parliamo di una società che impiega circa 150–200 persone. Non migliaia, non centinaia di migliaia: 150.
E nel 2024 ha generato 13 miliardi di profitti. Nel secondo trimestre 2025: quasi 5 miliardi. Tradotto: ogni dipendente “vale” qualcosa come 70–80 milioni di profitti l’anno.

È un numero che avrebbe fatto impallidire lo stesso Pareto. È un numero che non ha alcun precedente nella storia dell’industria.
Ed è un numero che mostra come la ricchezza, oggi, sia sempre meno collegata al lavoro.

Perché Tether non produce nulla. Non ha fabbriche. Non ha macchinari. Non ha turni. Non ha operai.
Ha solo algoritmi, server, riserve finanziarie investite in Treasury americani.
È un’azienda che cresce con poco personale, senza territorio.
In altre parole: un’azienda in cui la Legge di Pareto non è più valida, perché il lavoro è quasi totalmente escluso dall’equazione.

E se il lavoro esce dall’equazione, esce anche lo sfruttamento “tradizionale”. Ma non perché scompare. Semplicemente cambia forma. Diventa invisibile.

Nella prima rivoluzione industriale il lavoro minorile era scioccante, ma evidente: bambini in fabbrica, turni di dodici ore, pericoli reali, corpi sfruttati.
Oggi il lavoro minorile non avviene nelle fabbriche, ma nelle miniere algoritmiche: camerette trasformate in studi di registrazione, bambini davanti a webcam per ore, a produrre contenuti che alimentano piattaforme globali.
YouTube, TikTok, Instagram.
Bambini di tre, cinque, sette anni che lavorano, perché di lavoro si tratta, senza tutele, senza limiti di orario, senza protezioni psicologiche.
Bambini che guadagnano cifre enormi per i genitori e per le piattaforme, ma al prezzo di un’infanzia monetizzata, esposta, permanentemente archiviata.

Se nelle Ferriere del Valdarno l’operaio aveva almeno la possibilità di organizzarsi, oggi il bambino content creator non ha neppure la consapevolezza di essere un lavoratore.
Non c’è conflitto perché non c’è linguaggio. Non c’è sindacato perché non c’è categoria. Non c’è protesta perché tutto sembra gioco.
E intanto le piattaforme macinano profitti miliardari.

Il problema più grande, però, non è morale. È politico.
Nella prima rivoluzione industriale, di fronte allo sfruttamento, c’erano tre contropoteri:
i sindacati, il socialismo di Marx ed Engels, la dottrina sociale della Chiesa con Leone XIII.
Oggi questi tre attori non esistono più in quella forma.
I sindacati non riescono a organizzare i lavoratori delle piattaforme.
Marx non ha un’eredità politica capace di agire su scala globale e chi ha provato ad applicarne i teoremi ha fallito miseramente.
La Chiesa cattolica ha perso la capacità di influenzare le strutture economiche come accadeva nell’Ottocento.
E dunque lo sfruttamento algoritmico resta senza nome, senza rappresentanza, senza alternativa organizzata.

C’è anche un altro indicatore che racconta questo mondo: l’indice di Gini, che misura la disuguaglianza.
Dal 1930 al 1980 la disuguaglianza diminuiva. Era il periodo della grande compressione: salari più equi, sindacati forti, welfare, tasse progressive.
Oggi l’indice di Gini torna a salire ovunque.
E nei settori digitali la disuguaglianza raggiunge livelli mai visti: quelli di Tether, ad esempio, sono rapporti non più 300 a 1 come tra CEO e operai, ma oltre 1000 a 1.

In questo contesto, la redistribuzione tradizionale – tassare il reddito – non basta più.
Perché presuppone che il reddito venga dal lavoro. Ma quando la ricchezza non deriva più dal lavoro, ma da algoritmi, da dati, da rendite finanziarie, da network effects, la tassazione dei redditi da lavoro è solo un cerotto messo su una frattura aperta.
La ricchezza continua ad accumularsi altrove.

Il nodo vero è questo: la ricchezza si è scollegata dal lavoro umano.
E quando la ricchezza non ha più bisogno del lavoro, tutto il modello politico del Novecento, conflitto sociale, contrattazione, welfare, sindacati, entra in crisi.

È per questo che la questione sociale del XXI secolo deve partire da zero.
Bisogna ripensare chi possiede i dati, chi possiede gli algoritmi, chi controlla le infrastrutture digitali.
Bisogna proteggere i bambini content creator come si proteggevano i bambini delle miniere.
Bisogna reinventare i sindacati per organizzare i lavoratori digitali.
Bisogna costruire una narrativa politica che non sia nostalgica, ma adeguata al mondo degli algoritmi.

E serve, probabilmente, anche una nuova voce morale.
Una nuova Rerum Novarum.
Leone XIV ha accennato a questi temi: solitudine algoritmica, mercificazione dell’attenzione, sfruttamento digitale invisibile.
Ma serve qualcosa di più di un accenno. Serve un nome, una denuncia, una visione.
Perché la nuova questione sociale non riguarda più solo gli operai davanti a una fabbrica.
Riguarda tutti noi, che viviamo dentro piattaforme che estraggono valore da ogni gesto, da ogni click, da ogni immagine, anche di bambini.

Pareto, nelle Ferriere del Valdarno, aveva visto che le società si reggono sempre su pochi nodi forti.
Quello che non poteva prevedere è che un giorno quei nodi avrebbero potuto fare a meno del lavoro umano.
È qui che la sua legge smette di funzionare.
Ed è qui che inizia la vera sfida del XXI secolo.